A.R.C.A. – A. D’Alessandro Tesi 2° Dan

Gli studi condotti all’interno della Associazione A.R.C.A. hanno portato ad una definizione ed ad una specificazione dei parametri che intervengono nel corso di una “azione aikidoistica”. La scelta di esaminare gli stessi attraverso la focalizzazione dell’elemento tempo è solo un modo per rendere materiale e visualizzabile il lavoro di interazione dei suddetti parametri. Poiché l’azione si svolge nel tempo sarà possibile rendere conto di ogni singola  fase, compresa quella che precede lo svolgimento dell’azione stessa e che ha a che fare con i parametri “intenzione” e “percezione”.

E’ senza dubbio possibile affermare che il parametro intenzione riguardi  ukè e che esso si esplichi in una variazione dei dati caratterizzanti l’attacco. Una intenzione  sostenuta da sentimenti forti, una personalità decisa, uno stato emotivo alterato, si tradurrà in un attacco veloce, mirato, dotato di notevole energia, probabilmente dalla traiettoria rettilinea. Al contrario un’intenzione “debole” produrra’ un attacco lento, un carico energetico inferiore ed una traiettoria nell’azione meno prevedibile.

Questo tempo, il tempo dell’intenzione, non esiste per torì e non avrebbe alcuna rilevanza se non si traducesse in un diverso tempo nella percezione e quindi nella risposta, che è sempre una risposta motoria. Dovendo continuamente fare i conti tra il modello teorico e la pratica quotidiana dovremo rinunciare alla affermazione “ rivoluzionaria per la quale” il tempo della percezione non ha alcuna conseguenza sulla efficacia della risposta ma solo sulla scelta della forma applicata ed anzi, al contrario, un anticipo eccessivamente lungo nella percezione può portare all’intervento del  Sistema Nervoso Centrale  con una conseguente naturalizzazione della risposta automatica delle reti neurali”.

Per spiegare tale concetto possiamo riferirci ad un esempio dei più classici ed a noi più familiari, quali quello della guida dell’automobile,  poiché essa comporta una serie di automatismi tipici dei comportamenti iper-appresi. Durante la guida non esiste un controllo puntuale di tutti i parametri che intervengono nell’azione e la nostra attenzione può essere completamente volta ad altro, per esempio ad una discussione molto articolata con il nostro vicino di viaggio o all’ascolto di un brano musicale.

 Se però, durante il percorso, avvengono cambiamenti significativi nei parametri “acquisiti” e antecedentemente  fatti oggetto di valutazione ( piove, la visibilità diminuisce, il traffico aumenta ) interviene un meccanismo di controllo degli automatismi e le diverse strategie di guida passano attraverso un controllo razionale. Questo è ciò che in Neuropsicologia viene definito Sistema Attentivo Supervisore ( SAS ) ( Shallice, 1988) o Sistema Esecutivo Centrale ( Baddeley, 1986).

Nella stessa direzione testimoniano certe note sul Sistema Nervoso Centrale (SNC)  riportate da U. Neisser nel suo libro  Conoscenze e realtà.

_ Il SNC ha troppe cose a cui pensare per potersi occupare, in maniera eccessivamente dettagliata, degli aspetti relativi al movimento. La vera funzione del SNC è soprattutto quella di occuparsi del pensiero, quindi di idee, teorie e programmi.

_ la memoria del SNC, pur vastissima, è troppo limitata per intervenire, sempre, sia sui singoli muscoli, sia sui singoli movimenti: troppe sarebbero le varianti.

_ il SNC usa il riflesso per realizzare i movimenti e la soglia di stiramento del muscolo è indipendente dai comandi centrali  che vanno ai motoneuroni alfa e gamma.

_ esiste un punto di equilibrio (EP, equilibrium point ) nei vari gruppi muscolari che dipende dallo spazio articolare realizzato nel corso del movimento e dal grado di tensione presente a livello dei diversi muscoli.

_ vi sono diverse soglie di attivazione nel muscolo che è visto come una molla. Un primo allungamento può semplicemente “ deformare “ il muscolo senza che esso reagisca. Un secondo allungamento può provocare il tipico riflesso fusoriale: contrazione fasica, dunque di breve durata. Un allungamento ulteriore provoca maggiore resistenza definita riflesso di allungamento tonico.

_ poiché il comportamento muscolare è influenzato, solo in parte, dai comandi centrali superiori ( ricordiamo che “ dal concetto che “il cervello non conosce muscoli ma conosce movimenti”, dobbiamo passare al concetto che “il cervello non conosce movimenti ma conosce scopi da raggiungere e risposte a domande ambientali”dobbiamo ritenere  che la cosiddetta “architettura neurale” del SNC , possegga, soprattutto a livello spinale, tutti i dettagli di conoscenza utili per rendere possibile l’esplicazione delle variabili cinetiche e muscolari.

Una questione di libertà
L’idea è dunque quella che il sistema nervoso centrale non contenga programmi motori che si occupano di tutti i dettagli necessari a realizzare tutte le varianti di qualsiasi movimento osservato in varie condizioni ambientali.
I modelli attuali fanno invece riferimento alle configurazioni definite equilibrium point per le quali i muscoli in combinazione con i circuiti spinali si comportano come molle passibili di essere messe a tono, che generano forze dipendenti dalla lunghezza che portano il braccio o la gamba ad un certo punto di equilibrio, e questo malgrado disturbi, condizioni iniziali diverse, eccetera. In questo modo la responsabilità esecutiva del SNC viene notevolmente ridimensionata in favore dei modelli di equilibrium point o di auto-organizzazione senza nessuna influenza organizzatrice dall’esterno e nessun homunculus esecutivo all’interno.

La libertà alla quale viene dunque fatto riferimento in questo luogo  è quella del corpo come sistema muscolare  oltre che come sistema nervoso centrale . Ho ritenuto adeguato riportare queste note di fisiologia (1) perché possedere questo genere di nozioni, dalle quali emerge quanto siano erronee certe concezioni che affermano un funzionamento gerarchico ed unidirezionali dell’organismo come funzione del SNC,  potrebbe essere di enorme utilità per quanti affidino la pratica sul tatami interamente alle potenzialità di comprensione e memorizzazione della mente. A riguardo è possibile senza alcun dubbio affermare che   esiste una responsabilità culturale e scolastica ed anche religiosa per la  quale il pensiero come attività “spirituale” debba avere una priorità sulle altre funzioni considerate inferiori.

Percezione e modalità di attacco
Non credo di commettere alcun errore affermando che non esiste, nella pratica aikidoistica “occidentale” alcun riferimento,  in letteratura e nella didattica,  finalizzato all’allenamento alla percezione per il semplice fatto che  sul tatami gli attacchi vengono regolarmente annunciati e le forme richieste. Il senso di ciò che vado scrivendo, come si inferisce dalle stesse premesse, è quello di dimostrare che il tempo della percezione non sia di eccessiva importanza ai fini dell’efficacia del lavoro e che anzi  l’adeguata  scelta ed applicazione  delle forme  sia da solo  un  parametro in grado di rendere conto dell’efficacia spostando il tempo della percezione e della intenzione  su una ipotetica scala temporale su valori numerici negativi ,  facendo coincidere con il momento zero l’inizio dell’evento aikidoistico come “veduta”.( Prendo la liberta di utilizzare questo termine mutuandolo dal linguaggio filosofico, allo scopo di suggerire un approccio differente lontano dalla capacità di schematizzare tipica del modo di procedere del nostro pensiero. Kant scrive di non poter introdurre lo schematismo in campo etico poiché i nostri concetti di libertà sono “vedute” non conoscenze. Non intendo sottoporre questa frase ad una serrata indagine di natura teoretica solo suggerire il senso di ciò che può non essere conoscenza perchè comprensibile e sperimentabile ad un livello differente da  quello mentale e tuttavia avere una validità ed una apprensione immediata allo sguardo di tutti. )Tuttavia, non avendo a che fare con sistemi  teorici e matematici,  ma con esseri umani dotati di peculiarità troppo spiccate e differenti,  un allenamento alla percezione potrebbe essere utile soprattutto perché potrebbe  avere effetto sullo stato emotivo nella direzione di una  di maggiore tranquillità e rilassatezza.

Dalle note di fisiologia riportate è possibile affermare che la via è sempre motoria e riguarda mezzi percettivi quali la vista o i muscoli o la cute, dunque non andremo a cercare in nulla di trascendentale la possibilità di sviluppare una migliore attitudine percettiva. Un esempio utile di allenamento alla percezione potrebbe, a mio parere, essere  costituito dal cambio continuo di partner durante l’allenamento in modo tale  che il corpo non abbia modo di fissare alcuna modalità operativa individuale ma  passerà continuamente ad incontrare tipi fisici differenti con diverse caratteristiche psichiche che hanno a che fare con il carattere, le motivazioni e, di conseguenza, con la diversa  energia spesa sul tatami durante l’allenamento.
Di sicura utilità sarà di non produrre attacchi prestabiliti ma modificare continuamente le modalità d’attacco nella tipologia, nella direzione ed anche nella diversa veemenza in modo da allenare l’emotività a non lasciarsi condizionare da diversi livelli di aggressività percepiti. Questo aspetto è particolarmente importante nel caso di attacchi multipli i quali rappresentano, ovviamente, di per sé una situazione di particolare stress.  Nulla potrà ovviamente sostituire una condizione di estrema rilassatezza in grado di eliminare gli stimoli parassiti che derivano da una emotività inquieta  o anche da un ego particolarmente ingombrante o da una condizione di stress eccessiva.  Non è certo per allenare “la percezione” che molte scuole presentano un corposo gruppo di esercizi per la respirazione ma credo si possa introdurre, come fatto a questo scopo propedeutico,  l’attitudine ad un respiro calmo e rilassato perché mediatamente capace di allentare gli stimoli parassiti e predisporre all’ascolto.

Alla luce di queste considerazioni è possibile dunque affermare, secondo il mio parere, che una condizione psichica “neutra”, nei confronti della propria emotività e nei confronti del mondo circostante, predisponga ad una maggiore capacità percettiva, utile,  ma non con “anticipi” particolarmente lunghi per non incorrere negli “inconvenienti” derivanti dall’intervento del sistema nervoso centrale.

L’intenzione di ukè deciderà delle modalità d’attacco e,  nonostante ciò appaia quale  un‘affermazione particolarmente scandalosa,  credo si possa dire che la tipologia di attacco non sia particolarmente rilevante e che sia invece opportuno allenare il corpo in termini di “punti di contatto”   (m° Luigi Branno – Randori: Linee Guida).

Il vantaggio credo consista nello sfoltimento di tutte quelle considerazioni che significano un tempo più lungo di reazione.  Il senso è di eliminare tutte quelle considerazioni di natura emotiva che spontaneamente accompagnano la condizione di chi è soggetto ad una aggressione.
Come rendere indifferente alla nostra coscienza-emotività l’idea di ricevere uno schiaffo, un pugno nello stomaco, un pugno sul viso, un calcio o l’eventualità di essere strattonati? Abituando il corpo, mediante l’allenamento a “sentire” il punto di contatto senza alcun genere di ridondanti valutazioni di genere emotivo.

Il punto di contatto può essere a mio parere considerato il punto archimedeo  di lavoro e, poiché il nostro filtro privilegiato si è stabilito nell’elemento tempo, il punto tempo zero della nostra azione.
La focalizzazione sulla  importanza del punto di contatto, si deve indubbiamente al lavoro svolto all’interno della Associazione A.R.C.A.  lavoro, che ha evidenziato, come il punto di contatto fornisca al corpo essenziali, vitali informazioni innanzitutto sulla posizione del nostro ukè consentendoci di assumere la “posizione utile” senza al contempo dare  alcuna “informazione”. Non dare alcuna informazione è possibile nel momento in cui, avendo realizzato un contatto, non compio alcun movimento che potrebbe “istruire” uke sulle mie intenzioni dandogli modo di ricomporre la propria struttura, nell’esempio proposto,  indietreggiando.  Esempio: nella forma tenchinage su katate dori, “generatosi” il punto di contatto, dovrà essere cura di torì di non spostare lateralmente il braccio di uke come per farsi spazio per non “rendere avvertibile” l’intenzione di avanzare allo scopo di squilibrare uke nella direzione dello spazio vuoto “ che ha preso corpo” dietro le sue spalle senza consentirgli di riorganizzare il proprio assetto.

Attribuendo al punto di contatto la modalità “tempo zero” in teoria si fa a meno di tutto il fardello emotivo che ha a che fare con le modalità di attacco, salvo naturalmente essere in grado di subire l’attacco trasformandolo nella esperienza del “punto di contatto” senza impattare o subire il colpo.  Anche in questo caso l’allenamento è primario perché grazie ad esso si danno al corpo le coordinate psico-fisiche  per far si che l’esperienza della “aggressione” ( mi sarà consentito usare questo termine volendo evitare, anche nel dato verbale,  la pantomima dell’ attacco “ da palestra”) diventi il punto “tempo zero”, con la valutazione della distanza, della velocità, della direzione, in sostanza di tutti quei parametri che caratterizzano l’azione, compresa la valutazione delle caratteristiche “strutturali” dell’aggressore.

Il punto di contatto rappresenta l’avvio di un cronometro ideale che dovrà segnare il tempo più breve alla fine dell’azione, tanto per giocare con le parole dovremo “scegliere” la forma tecnica e dunque il punto di applicazione che fa tendere il tempo dell’azione a zero. Come si capisce, il criterio prescelto è quello di rendere la risposta immediata. Purtroppo i parametri in gioco sono troppi e troppo vari per poter individuare forme adeguate relative ad ogni punto di contatto realizzato, mentre l’unico criterio che mi è sembrato di una certa utilità è quella di privilegiare i punti di applicazione che comprendano la testa e le spalle perché forme più immediate e meno suscettibili di errore durante l’esecuzione. E’ opportuno chiarire che il termine privilegiare ha a che fare con una “selezione” che avviene a monte nella praticità dell’allenamento, nella acquisizione di una “manualita” che non ha nulla a che vedere con la scelta meditata, mentale che viene fatta come ciò che si può  decidere di realizzare una volta che si è subito un attacco.


Come si è detto è opportuno abituarsi a “ pensare” in termini di punto di contatto piuttosto che in termini di attacco e per alcuni di essi in termini di punti di contatto ideali. Si tratta delle forme di attacco più comuni quali jodan o chudantsuki per i quali è decisamente più salutare allenarsi a stabilire un punto di contatto ideale o tuttal’più tale da dare al nostro corpo le informazioni  relative alle posizioni reciproche ed al fatto di essere riusciti a guadagnare immediatamente la “posizione utile” alla applicazione della forma.

Si, ma quale forma? Ho svolto un tentativo iniziale per individuare le forme che a parità di punto di contatto, e cioè al momento zero del nostro cronometro, riducessero progressivamente il tempo di risposta sulla base di un criterio di snellimento emotivo e motorio della risposta stessa. Posto un attacco comune e quindi un medesimo punto di contatto ho esaminato due forme che prevedono il medesimo punto di applicazione  per capire se fosse possibile individuare la forma più adeguata a soddisfare i requisiti richiesti.

Attacco: Jodan ,

Punto di applicazione: Testa
Forme: Iriminage, kiriotoshi

Kiriotoshi: Il punto di contatto Kiriotoshi  si può definire ideale essendo previsto, per questa forma tecnica,  uno spostamento della posizione di torì  tale da portarlo alle spalle di ukè  dove verrà realizzata una forma tecnica che prevede l’applicazione di una coppia di forze tale da produrre un disallineamento e di conseguenza uno sbilanciamento del corpo di ukè.

Iriminage: La forma diretta prevede un punto di contatto utile a realizzare immediatamente un contatto con il corpo di ukè e l’applicazione della medesima coppia di forze ed il medesimo disallineamento.

Dalle immagini prodotte si capisce che queste due forme tecniche, posti gli stessi parametri di base (attacco, punto di contatto..ecc..) sono perfettamente sovrapponibili nei principi applicati e nei tempi prodotti.

II° esempio   Attacco: Jodan

                       Punto di applicazione: Braccio
Forme: Hijikimeosae, Udegarami

Hijikimeosae: Il punto di contatto diventa il punto di applicazione mentre la coppia di forze  che proietta ukè nella zona vuota comprende anche un disallineamento prodotto da un movimento di rotazione dell’articolazione .

Udegarami: Medesimo punto di contatto e di applicazione  anche se in questo caso i punti della applicazione della coppia di forze prevede una maggiore distanza.

Pur essendo forte la tentazione di individuare un numero limitato di forme e far corrispondere a queste un numero limitato di possibili punti di contatto e di applicazione  in modo da automatizzare la risposta ottenendo una consistente diminuzione nel tempo della stessa , pure  ho dovuto rinunciare  perché non mi è stato possibile comprendere in pochi parametri l’enorme quantità di variabili che si generano  nell’incontro-scontro di due o più esseri umani.

Ciò non toglie  però che si possa individuare e definire un metodo come il più adeguato: in questo caso a mio parere  valido sarà quello che consentirà un orientamento della nostra risposta tempo verso lo zero. Questa considerazione può sembrare ovvia ma non lo è se si considera che altre scuole di pensiero affermano, ad esempio,  la validità di mantenere il contatto come dato utile alla risposta.
Le forme relative ad alcune scuole di pensiero che potrei definire più elementari sono quelle che affermano la necessità di mantenere il contatto perché sia possibile svolgere la tecnica  “scolastica”  senza tener conto dell’elemento tempo.  In questo caso è  previsto un ukè ammaestrato al punto da perdere la vita pur di mantenere la presa e riprodurre la forma canonica. E’ opportuno specificare che la ragione per la quale si sceglie di mantenere il contatto nelle modalità in cui esso si è immediatamente realizzato  è quella di  evitare di essere colpiti nel momento in cui si lascia ad un tori, ormai “consapevole” l’iniziativa di “un attacco di ritorno”, mentre i casi a cui ho fatto riferimento hanno a che vedere con una inconsapevole modalità di lavoro di uke che non lascia la presa non perché ne comprenda le possibili conseguenze negative  e la cui coscienza corporea decida di volta in volta sul da farsi ma che mantiene il contatto  perché è compito di uke quello di “mantenere il contatto”.

 Altre scuole un po’ più evolute, se non altro nella disposizione all’adozione di una propria originalità di pensiero, considerano il mantenimento del punto di contatto un metodo utile per infliggere al nostro ukè una serie variamente definita di sbilanciamenti sino all’esito finale con gran dispendio di tempo e di energia. Esiste un dato di fondo che non mi fa essere d’accordo con questo genere di lavoro e questo è il dato culturale. Avendo continuamente affermato la necessità di  stabilire in maniera limpida ed inequivocabile la materia oggetto del nostro studio e della nostra pratica, non è possibile non tener conto del fatto che si sta praticando una disciplina marziale per la cui mentalità è indispensabile che l’azione si risolva in un colpo solo, unico, definitivo. E’ per questo che credo che l’argomento tempo andrebbe preso in più seria considerazione e che di conseguenza non abbia alcun senso portare il nostro ukè a spasso per il tatami aggiungendo inutili e ridondanti  tai sabaki  e sbilanciamenti.

Come si è visto dagli esempi esistono forme tecniche  assolutamente identiche e sovrapponibili al di là del dato visivo-formale per il semplice fatto che fanno riferimento alla medesimi applicazione di coppie di forza e di principi.

In generale la nostra preoccupazione dovrà essere quella di affrontare l’azione adeguatamente percepita, nel senso di una condizione libera da esasperazioni e tensioni eccessive perché, come si è visto, il corpo possiede da se, senza necessitare di alcuna apprensione razionale, mentale, delle risorse anche e soprattutto neuro-fisiologiche per far fronte a qualsiasi evenienza, opponendo una struttura forte ma non rigida perché nata da una abitudine ad una adeguata distribuzione del peso tale da controbilanciare  le tensioni derivanti dalla forza di gravità, attitudine questa che si acquisisce in media nell’undicesimo mese di vita ma che si scopre come una abilità irta di difficoltà non appena il nostro insegnante ci chiede sul tatami di fare un passo in avanti. In verità l’equilibrio richiesto fa riferimento ad un corpo in continuo movimento, una struttura forte che si riproduce, generandosi, dal movimento di spostamento e di aggiustamento di tori e questo come condizione indispensabile in caso di attacchi multipli nel randori.

Spezzare una struttura
Anche questo concetto, per il quale è stato necessario adottare nuovi vocaboli, proviene dagli studi condotti all’interno di A.R.C.A. tutti volti a visualizzare, anche e soprattutto a scopo didattico, quelli che devono essere gli aspetti più importanti che entrano nell’azione aikidoistica in modo da dare un senso ad ogni fase del processo.

Una struttura spezzata è una struttura nella quale le linee di equilibrio si sono interrotte in due o più punti, in pratica l’asse che tiene in piedi il corpo presenta punti non allineati e di conseguenza privi di appoggio. In quale direzione vanno disallineati i punti? La risposta è in direzione delle zone vuote, dato non difficile da guadagnare essendo gli esseri umani dotati di due appoggi (gambe) per cui in qualsiasi posizione si ponga ukè, sarà sempre possibile individuare le zone vuote e lì lavorare. Ritornando al dato temporale si è visto come un allenamento alla percezione possa essere di qualche utilità, un allenamento a ragionare in punti di contatto e non di attacco alleggerisca il fardello emotivo; si è visto inoltre come non sia possibile giungere ad una sovrapposizione puntuale di punti di contatto e punti di applicazione con uno sfoltimento salutare delle forme tecniche perché troppi sono i parametri in gioco, e come  un allenamento ad individuare le aree vuote ed un conseguente tentativo di rompere la struttura di ukè costituisca il centro del problema perché in definitiva di questo si tratta.  Anche in questo caso l’unico aiuto possibile ci proviene dall’allenamento che non deve conoscere nomi e tecniche da riprodurre a tutti i costi ma solo applicazione di principi ed individuazione dei punti focali.

Ogni aspetto e dato del problema viene enormemente amplificato nel randorì che più che costituire una eventualità materiale da affrontare, credo si debba considerare l’allenamento “principe” della disciplina aikidoistica perché mette tori  in condizione di vivere , facendone una esperienza piena, consapevole, di assoluta, indispensabile mancanza di separazione mente-corpo, la densità del proprio percorso  che dovrà andare in direzione di una assoluta consapevolezza della posizione del proprio corpo nello spazio, di un assoluto controllo della emotività, di un assoluto controllo dello spazio intorno, dello spazio di ciascun avversario, delle diverse tipologie fisico-caratteriali di chi gli si fa incontro, delle aree vuote che di volta in volta si disegnano intorno ad essi: il tutto  nel tempo che tende allo zero.

 Considerazioni intorno al concetto di coscienza corporea.
 Credo esista un equivoco di fondo relativo al concetto di coscienza corporea, consapevole oppure no ma credo assolutamente innegabile perché gli effetti deleteri di tale equivoco sono puntualmente osservabili su tutti i tatami a vari livelli. Per coscienza corporea in generale si intende, erroneamente, l’avere percezione della posizione del corpo nello spazio, l’avere consapevolezza della posizione dei vari distretti corporei nel movimento, l’avere il controllo della propria emotività ad esempio mediante il respiro. E’ forse questa la ragione per la quale , durante gli allenamenti non è difficile vedere qualcuno guardarsi le mani oppure i piedi o anche la posizione delle schiena nello specchio nella speranza che la  “ messa a punto “ durante l’allenamento, voglio dire il riscontro puntuale visivo, nel tempo renda la nostra coscienza più forte e capace. Il fatto è che la maggior parte di noi, probabilmente ignorando le note di fisiologia di seguito riportate, continua a considerare l’apparato muscolare e scheletrico una sorta di mezzo di locomozione che la nostra mente adopera al momento opportuno secondo necessità realizzando automatismi più o meno perfetti ma comunque movimenti  che originariamente sono generati dalla mente. Personalmente la necessità di chiarire questo aspetto mi è sorto da una insanabile incongruenza che mi si era creata da un punto di vista concettuale: Come è possibile pensare di applicare forme e principi, che hanno comunque a che vedere con principi di natura fisica, squilibri e disallineamenti, se non è la mente a compiere i necessari passaggi indicando, avendo raccolto le indispensabili informazioni visive, dove sono le zone vuote, dove orientare lo squilibrio, dove rompere la struttura di uke? Ciò che viene continuamente ripetuto sul tatami è di non pensare nel senso di non decidere, di non voler fare a priori qualcosa, dunque di escludere la mente. Per questa ragione  si deve, a mio parere,  risalire all’idea di veduta che ho precedentemente indicato e cioè di qualcosa che deve essere vissuta ad un livello differente per la quale l’informazione visiva, nel senso stretto di informazione sulla reciproca posizione dei corpi nello spazio, è superflua nel momento in cui viene decodificata ed incanalata secondo gli schemi consueti. La coscienza del corpo è qualcosa di originario che nasce dall’essere un organismo i cui apparati hanno funzioni che non esauriscono e non  limitano l’interazione reciproca e le cui possibilità superano di gran lunga ciò che normalmente viene detto se solo si dovesse riuscire ad impedire che il senso violento della vista si arroghi  continuamente il diritto di guidare la mano..e questa la mente.

Riempire la forma
Si è dunque parlato di attitudini psicologiche ed emotive e di conoscenze legate alla fisiologia e dunque al funzionamento  dell’apparato scheletrico- muscolare e del modo per interferire sulla capacità del corpo di mantenere l’ equilibrio producendo un disallineamento in corrispondenza di almeno due assi della struttura corporea. A parte le attitudini relative all’inizio dell’azione aikidoistica per cui si possono trovare soggetti più o meno paurosi, tesi, ansiosi, tranquilli, coraggiosi o reattivi la domanda che spontaneamente si pone è: In cosa consiste la differenza tra un maestro ed il suo allievo, un aikido efficace ed il suo contrario? Perché non è sufficiente spiegare dove sono le zone vuote, cosa è struttura forte, some si spezza una struttura, come disallineare gli assi? La risposta è in un percorso, che non è un percorso di elevazione spirituale  a meno che per elevazione spirituale non si intenda la capacità di acquisire una visione che guardi all’essenza delle cose, che faccia a meno delle sovrastrutture, che faccia a meno della intenzione consapevole lasciando al corpo la possibilità di compiere l’azione. La necessità di scrivere mi lega al linguaggio e quindi al pensiero e certo questo è il sistema più difficile e sicuramente inadeguato per descrivere il concetto. Quello che posso dire è che il livello cambia nel momento in cui per un caso fortuito, certo non pensato, il corpo fa esperienza di questa condizione e l’aikido diventa efficace. Pensando a ciò sono arrivata ad una conclusione: La ripetizione che si chiede sul tatami, l’allenamento, non ha solo lo scopo di mettere il sistema motorio in condizione di memorizzare forme ed applicazione di principi, ma, anche, di ricercare l’errore (nel senso razionale del termine) il caso fortuito che regala quella singolare esperienza. Dunque non si impara per ripetizione, si può ripetere per decenni perfezionando la posizione del corpo ma non conoscere mai l’esperienza di un aikido efficace ma la  ripetizione , nel momento in cui la conoscenza di un movimento alleggerisce il controllo razionale, serve ad imbattersi nell’esperienza di una particolare condizione che potremmo definire zen, in cui si smette di scegliere tra cosa sia il bene e cosa il male, su ciò che è meglio fare e cosa no e si lascia che il corpo viva il momento come momento di verità perché libero dalla intenzione volontaria. Una volta fatta esperienza di tale condizione lo sforzo deve essere quella di ricercarla ancora e questo è possibile perché almeno si sa in quale direzione cercare. Potrebbe essere dunque lo Zen l“ingrediente magico” da ricercare, la sostanza che riempie la forma.  

(1) Note di fisiologia
Un riflesso è il risultato motorio di una risposta del sistema nervoso ad uno stimolo sensitivo periferico. Lo stimolo afferente raggiunge il midollo spinale, senza perciò giungere alla coscienza, e la risposta allo stimolo viaggia verso la periferia e produce un movimento stereotipato di un segmento corporeo.  Tuttavia i riflessi sono modulati anche da centri soprasegmentari, cioè da altre regioni del sistema nervoso, compresa la corteccia. Dal punto di vista neurofisiologico, l’arco riflesso inizia con uno stimolo sensitivo, che agisce sul tendine muscolare, sull’osso, oppure sulla cute o sulle mucose.

Questo stimolo causa, direttamente o meno, un allungamento del muscolo; questo è registrato dai recettori presenti nei fusi neuromuscolari i quali, tramite fibre afferenti, portano il segnale al motoneurone del midollo spinale, dal quale parte un impulso efferente che viaggia nel nervo motorio e causa la contrazione del muscolo corrispondente. Il riflesso più semplice è quello spinale, detto anche miotatico ( dal greco μς “muscolo” e τείνω “tendere”): esso è monosinaptico in quanto la fibra sensitiva del fuso neuromuscolare fa sinapsi direttamente sul motoneurone alfa nel midollo spinale.  Altri riflessi coinvolgono più stazioni sinaptiche. La maggior parte dei movimenti corporei viene eseguita in maniera automatica. Il sistema nervoso è capace non solo di eseguire movimenti già conosciuti, ma di apprenderne nuovi e di adattarli per l’esecuzione di gesti complessi. A questa attività di controllo e decisione dei movimenti partecipano numerose aree dell’encefalo : lobo frontale, corteccia pre-motoria, corteccia motoria. La corteccia pre-motoria viene attivata già nel momento in cui si pensa di eseguire il movimento, la corteccia motoria entra invece in azione quando si esegue il gesto motorio.

Nell’esecuzione di un gesto complesso (ad esempio suonare il piano) la solo volontà non basta, occorre una sua pianificazione. In questi casi, infatti, l’encefalo, procedendo con gradualità, progetta un modello di movimento, lo testa su un “computer di simulazione” (nuclei della base e cervelletto) e poi lo esegue. La neurobiologia più recente ha infatti dimostrato che le mappe corticali dell’adulto sono in costante modificazione per mezzo dell’attività delle vie sensitive periferiche e al conseguente continuo apprendimento.

Le rappresentazioni cerebrali dell’apprendimento sono dette engrammi.  In generale, il sistema motorio, al pari di un sistema cibernetico, contiene rappresentazioni cerebrali, engrammi, che consentono un meccanismo decisionale anticipatorio (feed-forward) rispetto al comportamento motorio che sta per essere messo in atto. Tale meccanismo trasforma gli engrammi in codice nervoso che, tramite la via tronco-encefalica e poi midollare, arriva ai motori muscolari periferici; l’energia mentale viene così trasformata in energia meccanica ovvero in movimento. Tanto più ripeteremo, in maniera sia cosciente che automatica, gli stessi movimenti, tanto più vedremo “rinforzarsi” nel senso di stabilizzarsi e rendersi maggiormente disponibile nella “memoria di lavoro” tale engramma o se preferiamo “programmazione” che ci porterà ad effettuare la dinamica motoria.

Affinchè sia armonico, anche il più piccolo dei movimenti coinvolge sempre più gruppi muscolari, che vengono reclutati in maniera temporale gerarchica, agendo così in maniera coordinata, come se fossero un unico muscolo (coordinazione motoria).  La scelta del movimento è determinata in maniera rapida e armonica dal sistema a feed-forward, grazie agli engrammi, mentre il controllo viene effettuato dal sistema retroattivo, o a feed-back, costantemente vigile durante l’azione. Le eventuali variazioni di movimento, necessarie a causa di perturbazioni, sono in realtà effettuate da meccanismi di correzione anch’essi anticipatori (feed-forward) e quindi basati su engrammi; ciò consente una maggiore efficacia in termini di tempo e modo. Le attività motorie ritmiche, come la deambulazione e la masticazione , hanno la caratteristica di essere generalmente volontarie in partenza e poi  riflesse, ovvero gestite automaticamente dai riflessi spinali, per il resto della durata. La coordinazione motoria è così ottenuta in gran parte tramite i riflessi spinali, quelli semplici in particolare, che presentano il grande vantaggio della rapidità (40 m/s per quelli rapidi).  L’encefalo fornisce al midollo spinale il valore desiderato, tale valore viene confrontato con la situazione presente realmente, ossia col valore reale, che viene misurato da uno specifico recettore sensoriale . Tramite il confronto tra valore reale e quello ideale, il midollo spinale  regola il tipo di prestazione che il muscolo in questione deve svolgere. Tale complessità di meccanismi azione-reazione, presente nella gestione posturale, richiede necessariamente che tutte le funzioni relative al controllo del movimento e della postura  siano distinte ma interdipendenti. La gestione dell’esecuzione del movimento è, nello stesso tempo, gerarchica e parallela.

 L’organizzazione gerarchica consente lo sviluppo, nei livelli inferiori, di importanti meccanismi  riflessi(cortocircuitazione midollare tramite i riflessi spinali), grazie ai quali, i livelli superiori possono dare solo comandi generali senza dover dettagliare l’atto motorio. Tuttavia, grazie alla modalità parallela, i livelli superiori possono interagire direttamente sugli inferiori integrando e vicariando, in maniera immediata, funzioni (questo aspetto risulta fondamentale nel recupero funzionale di alcune lesioni del sistema nervoso centrale); ad esempio il midollo spinale da solo non è in grado di garantire una deambulazione fluida e sicura.  Tutto ciò fa comprendere come la  postura, in statica e in deambulazione, necessiti di più livelli di controllo nervoso, in quanto l’azione antigravitaria richiede un ampio e complesso coordinamento. Tramite i meccanismi sopra-descritti, le stimolazioni cutanee sono in grado di modulare riflessi molto complessi con funzioni posturali notevoli. Da qui nasce l’importanza del  terreno  e del  plantare ergonomico nel determinare atteggiamenti posturali e quindi nel creare engrammi cerebrali. Non va altresì trascurato il fondamentale ruolo del sistema connettivo nella determinazione di postura e pattern motori.  Di tutte le strutture del  sistema nervoso centrale , più di un quarto partecipano direttamente e più della metà indirettamente alla pianificazione e all’esecuzione dei movimenti; l’uomo quindi, con i sui 650 muscoli e 206 ossa, è un “animale motorio”. Azioni e movimenti hanno un ruolo centrale nei processi di rappresentazione mentale, a partire dalla fase embrionale. L’embrione, infatti, è innanzitutto un organismo motorio, in questa fase, in quella fetale e in quella della prima infanzia, l’azione precede la sensazione: vengono compiuti dei movimenti riflessi e poi se ne ha la percezione.

Le funzioni motorie e il corpo, considerati in molte culture come entità inferiori e subordinate alle attività cognitive e alla mente, sono invece all’origine dei comportamenti astratti, compreso lo stesso linguaggio che forma la nostra mente e nostri pensieri. Perdere il controllo sul proprio corpo significa, di conseguenza, perdere il controllo sui propri pensieri ed emozioni. La propriocezione, la coscienza di sè, deriva dalle informazioni dei recettori sensoriali situati nella fascia connettivale, nei tendini, nei muscoli, nelle articolazioni, nella cute e nei visceri (propriocettori ed enterocettori), nella cute (esterocettori cutanei), nell’apparato vestibolare e negli occhi (esterocettori retinici), da loro dipende la conoscenza su quale è la nostra “conformazione” e posizione spaziale; in qualche misura, per rispondere alla domanda “chi sono io?”, occorre anche rispondere alla domanda “dove sono io?”.  D’altro canto, nei momenti critici (stress intenso), il sistema muscolare costituisce un sistema ad alta priorità: quando è attivato, gli altri sistemi, come quelli responsabili della percezione delle sensazioni, dell’attenzione, delle attività cognitive ecc., sono in stato di relativo blocco (ritmo cerebrale beta), in quanto tale stato è legato nell’inconscio all’esecuzione di azioni importanti per la sopravvivenza, come la fuga, l’attacco, la ricerca del cibo, di un partner sessuale, del nido. Un gruppo di muscoli in tensione esercita un’influenza su altri muscoli, sia per un fatto muscolare che  nervoso (i  neuroni eccitati eccitano quelli vicini). (materiale scaricato da internet)



4 commenti

  1. D.R. wrote:

    Cara Angela, mi permetto di farti i complimenti per questo lavoro di fondazione scientifica dei principi dell’aikido. Ammesso che abbia le sufficienti qualità per esprimere un giudizio in merito. Devo dire che mi sembra un’ottima base per una sistemazione e canonizzazione del lavoro svolto nella nostra scuola.
    Dal mio punto di vista, l’aikido è una via per ritrovare un sé incarnato, ovvero superare la dualità mente-corpo tipica della nostra cultura che tende a vedere il corpo come una macchina che la mente guida con mezzi cibernetici naturali (in altre parole, il sistema nervoso) affinché ottenga le migliori prestazioni possibili.
    Ecco, sotto questo aspetto, vorrei porre una questione: non è forse meglio sviluppare un po’ di più l’aspetto – chiamiamolo pure così – “mistico” dell’aikido, proprio per lasciare maggior spazio a quelle che possiamo chiamare kantianamente vedute, ovvero ad una forma di conoscenza immediata, intuitiva, non teorica? Mi riferisco in particolare al riferimento che fai all’elemento spirituale, che nella nostra società sarebbe preferito agli aspetti fisiologici dell’uomo: non credi, però, che la fisiologia sia in effetti un’espressione, quanto mai significativa, proprio della metafisica occidentale che ha impostato la propria visione dell’uomo sulla dualità tra mente e corpo? E non è proprio, per questo, l’elemento spirituale che dovremmo maggiormente cercare, nell’aikido almeno, per superare questa concezione ristretta dell’uomo, per riguadagnare non tanto il proprio corpo (per quello abbiamo già la medicina, il fitness, il body building, il “viver sani e belli”) quanto, come dicevo prima, il proprio sé incarnato? Non so, è una questione che sollevo perché l’avverto molto forte, per quanto mi riguarda. Mi piacerebbe ragionarci, nell’ambito dell’aikido.

  2. A. D'Alessandro wrote:

    Ti ringrazio Diego per le belle considerazioni che hai fatto sul mio lavoro. Grazie. in verità io credo non esista la possibilità di ricercare una dimensione spirituale dimenticando il corpo tipo una meditazione o una introspezione serrata e non credo neppure nella ripetizione inconsapevole, quella che viene richiesta da alcuni insegnanti con la promessa messianica: poi capirai….poi funzionerà. Credo in un allenamento che liberi il corpo da schemi rigidi, da memorizzazioni inutili, che sviluppi altri nostri sensi come la sensazione della distanza che non tenga conto del dato visivo, la percezione dell’energia e della determinazione dell’altro, la capacità di realizzare il momento senza la continua lacerazione della mente in un futuro che viene per il quale “approntarsi ed attrezzarsi”. ho scritto nel commento ad Augusto che il nuovo lavoro forse ci consentirà dei passi avanti in questa direzione….a me sembra sinceramente l’unico percorso possibile.

  3. D.R. wrote:

    Sono perfettamente d’accordo con te, Angela.
    Il problema è che rispetto a queste cose sorgono subito sempre un sacco di equivoci: effettivamente, quando si parla di spirituale, si tende a pensare ad una dimensione astratta assolutamente scorporata. Del resto, spesso ci si allena come se si dovesse semplicemente mettere a punto una macchina. Il vero problema è che manca proprio l’equilibrio tra le due sfere. O meglio, insistiamo a considerare separate quelle che sono semplicemente due facce della stessa medaglia.
    Quando parlo dell’aspetto “mistico” mi rendo conto che il discorso può essere facilmente frainteso e scivolare sul piano della magia o della superstizione. Ma questo deriva appunto dall’ignoranza. Il problema è che di solito si parla di spirituale ma già si pensa ad “attrezzarsi” per qualcosa. E allora ricadiamo nell’allenamento tecnico/fisico, come se si trattasse di “attrezzarsi” per migliorare certe prestazioni. Insomma il problema è che continuiamo a guardare il dito. Maledetto dito!…

  4. tylna belka wrote:

    Thanks for finally writing about > A.R.C.A. – A. D

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