Lo sviluppo della personalità attraverso la pratica

L’Aikido, quale specializzazione della Via del guerriero (Budo), è l’evoluzione delle antiche Arti Marziali giapponesi. Frutto delle ricerche di Morihei Ueshiba (1883-1969), può essere considerato una forma di mediazione dinamica. Il suo fine ultimo è l’Illuminazione nel senso buddista del termine ed il suo cammino passa attraverso una educazione alle relazioni con gli altri. Tecnicamente può essere distinta dalle altre Arti Marziali per i suoi movimenti essenzialmente rotondi, per la assoluta mancanza di competizioni e per il suo studio approfondito degli aspetti psicologici delle relazioni.

Per volontà esplicita del suo fondatore, l’Aikido, che comunque spiccava nel panorama delle discipline da combattimento per la mancanza della lotta come strumento didattico, non doveva essere ritualizzato in una qualche filosofia morale poichè l’idea stessa di illuminazione sfugge al qualsiasi possibile struttura mentale.

Il suo messaggio, senz’altro di crescita personale e di educazione costruttiva piuttosto che un semplice esercizio con finalità distruttive, filtrato attraverso un’intellettualizzazione eccessiva non poteva che uscirne distorto se non smarrito addirttura. L’idea era che il lavoro dell’insegnante sull’allievo doveva arrivare, senza altri intermediari (I SHIN DE SHIN) a quella che oggi chiamiamo “Coscienza del corpo”.

Appare ovvio, dunque, che sin dal momento della sua creazione, nella prima metà del secolo scorso, l’Aikido richiedesse uno sviluppo sottile delle qualità didattiche di chi si accingeva al suo insegnamento. Lo sviluppo, nello specifico, di una forma di linguaggio antica come l’Uomo ma allo stesso tempo misteriosa e difficilmente controllabile, che parlasse non soltanto alle orecchie, ma direttamente alla coscienza profonda dell’individuo: una comunicazione Non Verbale.

LO SVILUPPO DELLA PERSONALITA’ ATTRAVERSO LA PRATICA
(di A. Cognard. tratto da “Aikido ed il corpo cosciente”)
“Non credo di rivelare niente di nuovo dicendo che la nostra società umana del XX secolo soffre di una crisi d’identità collettiva, che a sua volta ne genera altre: economica, sociale e affettiva. Senza pretendere di fare uno studio sociologico, vorrei analizzare alcune cause evidenti che non possono sfuggire al buon senso generale. L’individuo non nasce già con un’identità psichica, ma la acquisisce poco per volta nel corso del proprio sviluppo attraverso le esperienze psico-affettive che sperimenta con la madre, il padre, i fratelli, l’ambito familiare e il gruppo sociale. Chiaramente all’inizio la parte d’identità ereditata è preponderante, dato che in effetti la coscienza del bambino si struttura attraverso il graduale apprendimento di concetti e questi appartengono al collettivo e quindi veicolano un’identità implicita. Le prime esperienze affettive sono più subite che vissute e seguono modalità diverse a seconda della famiglia. È proprio l’integrazione di questi vari sottintesi che richiede una coscienza di se, e spesso la nozione d’identità personale mi sembra più teorica che reale. In ogni caso la famiglia costituisce una tappa decisiva in questa acquisizione e le ultime evoluzioni del nostro modo di vivere, come la parziale abolizione dei valori morali e il livellamento di quelli culturali, sono tanto riferimenti perduti e non sostituiti quanto riferimenti mancanti per la determinazione di se. A questo fenomeno si aggiunge la comparsa di valori nuovi e per principio opposti alla morale tradizionale, che fanno sentire alI’ essere sociale una discordanza ben presto percepita come unico valore. La perdita dell’identità familiare procede di pari passo con la parziale scomparsa dei particolarismi regionali e locali, dei dialetti e degli accenti, delle specificità  gastronomiche, dell’arte e dell’ abbigliamento a vantaggio di una generalizzazione, anzi di una mondializzazione del modo di essere alla quale gli individui non sono interiormente legati e il cui tratto comune è quello di basarsi su un funzionamento conflittuale. Questi nuovi riferimenti danno importanza all’esteriorità che diventa l’unico campo d’azione dell’individuo e quindi il luogo della sua coscienza. Così la negazione implicita dell’interiorità, o il fatto di relegarla a uno stadio inferiore, crea una frattura nella personalità le cui conseguenze sono manifeste. I media sono l’unico intermediario di una parola collettiva che deve soppiantare quella del clan, e qualunque sia la loro forza non possono combattere il fatto che il gruppo viene percepito come un mostro che non si può né conoscere né combattere e che quindi non permette i confronti necessari per uno sviluppo armonioso. In effetti la paura di questo inconoscibile è troppo grande perché l’esperienza possa prodursi nell’equilibrio che essa richiede, e la violenza che oggi scaturisce è il prodotto immediato di questo conflitto ormai inevitabile fra, da un lato un individuo privo di qualsiasi forma di conoscenza, in particolare della coscienza di se, e dall’altro il gruppo, l’idra a mille teste che non ha né conoscenza, né una propria coscienza e non può in alcun modo essere un punto di riferimento, visto che la sua ignoranza lo obbliga a dei cambiamenti incessanti e incosci. Un tempo il gruppo aveva dei nomi, veicolava idee caratterizzate da una certa costanza, possedeva dei volti familiari. Era per sua natura benevolo e ospitale, e quindi poteva essere un modo per sperimentare l’alterità propizia allo sviluppo di un’equilibrata vita in comune. Il gruppo di oggi è ostile, e quando non lo è, fa esso stesso un discorso sull’insicurezza, presentandosi così sotto un duplice aspetto. In parte si tratta di un riferimento assoluto perché è inconoscibile e rappresenta tutte le minacce (come un padre che ha perso la ragione), mentre d’altro canto pretende di avere la soluzione a tutti i problemi dell’individuo che si presuppone trovarsi in estremo e permanente pericolo (come il bimbo di una madre affetta da psicosi paranoica). Questo farsi totalmente carico crea, inoltre, il presupposto per cui l’individuo non può mai rischiare qualcosa e non è in grado di risolvere i propri problemi da solo. Si tratta di una vera e propria castrazione perpetrata ai danni dell’individuo, questo bambino che viene condannato ad appartenere a un gruppo senza il quale non c’è salvezza e al quale si toglie il potere della coscienza. A questo si aggiunge il fatto che l’individuo senza le proprie radici non ha più storia, visto che l’incoerenza e l’impermanenza del discorso collettivo non gli permettono di riconoscersi e il cambiamento viene presentato come unico modello accettabile. Il cambiamento può essere costruttivo se si sposta da una coscienza a un’altra, da uno spazio conosciuto a un altro. In quel caso, invece, si tratta di oscillazioni tra livelli che non raggiungono mai la coscienza di se, perché gli esseri senza radici sono esseri senza storia, separati dalle proprie esperienze dal momento che, inutile  dirlo,esperienza significa riconoscimento della propria anteriorità cosciente. Sono presenti tutte le componenti necessarie alla creazione di una patologia mentale individuale e collettiva, e beate le individualità che vi sapranno sfuggire sapendo che le collettività ne sono già affette abbastanza diffusamente. Quindi che gli individui tentino di ricreare la famiglia non sembra più illogico, anzi, e nemmeno che desiderino ritrovare dei valori morali, ideologici, religiosi. L’uomo della fine del xx secolo cerca dei punti di riferimento e pensa di poterli reperire nelle sette, nella moda, oppure nello sport di massa ecc. Tutto questo può creare l’illusione di un insieme all’interno del quale la coscienza crede di orientarsi, sapendo che il problema generale è quello di uscire da questo contesto per entrare nella vita quotidiana. La maggior parte delle proposte si limita a offrire implicitamente o esplicitamente una semplice e diretta trasposizione. Anche le arti marziali possono assumere questi ruoli a seconda del modo in cui vengono insegnate, perché rientrano in tutti i criteri citati. Tanto per cominciare la violenza e la paura sono temi così scottanti che ne abbiamo fatto una vera e propria modalità d’espressione di cui le arti marziali beneficiano direttamente, anche se in questo contesto il verbo beneficiare potrebbe sembrare fuori luogo. Bisogna ammettere che anch’esse degli sport di massa, atte a scatenare una notevole aggressività, a esprimere pulsioni guerriere, a offrire un’identità in prestito. Sanno essere settarie, religiose, fanatiche e ideologiche, così come sanno essere una semplice moda passeggera, e possono deformarsi fino a invadere gli schermi cinematografici e televisivi con film e cartoni animati non più riconoscibili. Le arti marziali sono costrette a riuscire a cavarsela in cui il degrado della situazione economica maschera la crisi affettiva, dove ciò che noi chiamiamo crisi sociale è di fatto una somatizzazione nel corpo colletti vo della sofferenza provocata dalla perdita d’identità, dove la crisi politica nasce da un rifiuto di assumere il potere su di se. L’individuo privo della coscienza di se al momento non ha fatto opportuno ne l’esperienza del nucleo familiare ne quella del clan. Prende a prestito dalla collettività emozioni, pensieri, sentimenti che non ha potuto ricevere dal suo gruppo naturale e che gli servono per assolvere questo compito che incombe su di lui: essere l’autore della determinazione di se. Il problema maggiore sta nel fatto che le collettività sono entità caotiche, poco evolute, poco coscienti e in grado di offri re, all’individuo che sta cercando, un insieme di esperienze traumatiche, emozioni improprie, pulsioni estreme. In effetti le situazioni di pericolo che l’individuo vive direttamente nella società, senza aver prima acquisito le necessarie esperienze insieme a coloro che gli sono più vicini, sono ancora più traumatizzanti, perché il gruppo sociale è rappresentato con un alto potenziale di ostilità. Non ha  assolutamente la benevolenza del nucleo familiare nè l’autorità rassicurante del padre, nè la forza d’identità che può dare la precisa percezione dei contorni del gruppo. La sua parola è discordante, sia sul piano politico che su quello sociale, gli obiettivi sono poco definiti e incostanti. Sul piano culturale non è omogeneo e al tempo stesso manca di tolleranza. Tutto questo tende a renderlo un gruppo in cui l’individuo è costretto a fare l’ esperienza di se senza averne gli strumenti. Ognuno si trova giorno dopo giorno a confronto con una tale quantità di elementi patogeni da diventare egli stesso patogeno per gli altri. Purtroppo nella realtà dei fatti ciò determina la comparsa di nuove patologie, la cui modalità di trasmissione è eloquente. Un’alterità patogena impedisce qualsiasi evoluzione della coscienza di se. Si può evolvere solo in un altro se stesso reale e benevolo, certo non in un altro se stesso mortalmente ostile. La perdita dell’altro come portatore di differenza è grave sia per l’individuo che per la collettività e ingenera una depressione che si esprime attraverso la perdita della speranza nell’avvenire, della fiducia nelle risorse comuni e la tendenza all’autodistruzione, tutte violenze di cui le arti marziali diventano il ricettacolo, qualunque sia il loro volto. L’Aikido non sfugge a questa logica, anzi ne ha assorbi to tutti gli aspetti citati. Da parte mia voglio mostrare come può essere positivo e creativo, nell’attuale situazione, e quanto viceversa potrebbe essere nocivo se noi insegnanti di quest’arte non ci assumessimo la responsabilità che ci spetta: esprimersi chiaramente riguardo alla propria storia e prendere posizione rispetto a essa; avere un’etica relazionale moderna, fondata sui diritti dell’uomo e garante delle libertà individuali, del rispetto delle pluralità; avere un codice morale e deontologico dell’insegnamento atto a proteggere il praticante da ogni abuso di fiducia.

Personalità deriva dal latino “Per Sona” cioè “mezzo attraverso cui passa il suono.”
La definizione fa riferimento al mondo teatrale e, più precisamente, alla maschera utilizzata dagli attori durante le rappresentazioni: la loro voce “passava attraverso” la maschera che copriva il loro volto. Nell’utilizzo corrente, il vocabolo ha perso il suo significato specifico per assumere un riferimento diretto all’individuo “nascosto ” dietro la “maschera”.

Un immediato riferimento alle teorie Pirandelliane ci mostra come l’attuale concezione del concetto di personalità possa nascondere ben più profonde implicazioni.

L’influenza dell’ ambiente sul singolo ha un duplice effetto. Se, da una parte, egli impara le regole che sottendono l’intero sistema sociale e relazionale e, contemporaneamente, impara ad eluderle, nascondendo la sua identità dietro una “maschera” che lo confonda con l’ambiente e lo faccia sentire sempre accettato, dall’altra contribuisce, alla pari dei fattori biologici, non ultimi quelli genetici, alla formazione di un proprio modo di essere e di pensare che pregiudica le sue attitudini verso il mondo esterno.

La definizione di “personalità” data nel 1992 dalla Organizzazione Mondiale della Sanità indica come la sua lettura :
“…individui una modalità strutturata di pensiero, sentimento e comportamento che caratterizza il tipo di adattamento e lo stile di vita del soggetto….”

Mi trovo grosso modo concorde con questa linea di pensiero. Ma è per me inevitabile notare come sia difficile parlare contemporaneamente di “Pensiero e Sentimento ” e di “Adattamento e stile di vita”.

In una società castrante e repressiva non è semplice avere la forza di condurre uno stile di vita che sia allo stesso tempo adattivo e comunque manifesto delle disposizioni interiori della mente e del cuore dell’individuo. Ci vuole molto coraggio. Il coraggio di un Guerriero.”

Fabio Branno



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