L’addestramento e la sua applicabilità

A chi pratica arti marziali viene spesso fatta una domanda apparentemente ingenua: “ma voi, quando vi allenate, vi picchiate davvero?”. Quando non ho voglia di essere troppo serio rispondo: “gli atleti che corrono  hanno qualcuno che li insegue?”. Oppure: “quelli che fanno il lancio del giavellotto stanno davvero provando a infilzare un cinghiale?”
La reazione a queste risposte –soprattutto per chi non ne afferra il carattere provocatorio, ma non elusivo– è di replicare “ma allora è tutto finto!” Cosa che in genere non mi preoccupo troppo di smentire.
Naturalmente sono consapevole –o almeno lo spero– della differenza che dovrebbe intercorrere tra attività dichiaratamente sportive come l’atletica e tutte le pratiche che in vario modo non vogliono rinnegare la propria radice e la propria essenza  di arti di combattimento.  Sia pure in  modo ingenuo, la domanda pone una questione ben più ampia, che è quella del carattere più o meno  realistico dell’allenamento e della conseguente applicabilità dell’addestramento.
Si tratta di una questione che peraltro va oltre l’ambito delle arti marziali  e delle attività sportive. Volendo però restare su questo terreno, mi sono spesso chiesto quale possa essere un esempio che, senza essere troppo metaforico, aiuti a chiarire sia a noi praticanti che ai profani quali siano i confini e gli orizzonti dell’addestramento marziale.
Negli ultimi tempi quello del nuoto sportivo mi sembra un buon esempio. Chi può negare che andare regolarmente in piscina, frequentando un corso presso una società sportiva, possa notevolmente migliorare la capacità di nuotare in mare?
Avendo imparato a nuotare tardi e da autodidatta, ho sempre guardato con invidia quelli che hanno acquisito una tecnica “accademica”, razionale e funzionale. Mentre io annaspo alla meno peggio e soprattutto mi stanco subito, quelli che anche in anni remoti hanno frequentato le piscine sportive vanno via veloci e possono nuotare a lungo. È certamente un grosso vantaggio, sia per il proprio piacere che in un caso di necessità.
E tuttavia, chi sosterrebbe mai che un nuotatore sportivo, fosse anche un campione, possa coprire qualsiasi distanza e in qualsiasi condizioni di mare? Certo, il vantaggio di chi si è addestrato a nuotare è enorme, ma siamo proprio sicuri che in caso di naufragio –in acque agitate e magari fredde – si salverebbero proprio i campioni olimpionici?
In questo caso è chiaro a tutti che l’applicabilità dell’addestramento deriva da fattori soggettivi e dalle circostanze degli eventi. Mi chiedo, piuttosto, perché alle arti marziali, non solo da parte dei profani ma talvolta degli stessi praticanti, si richieda un’applicabilità assoluta, una mitica efficacia in tutte le più varie situazioni di conflitto. Una possibile risposta è che siamo disposti a concedere alle forze della natura una distruttività non contrastabile, mentre vogliamo convincerci che si possa controllare la violenza degli umani. Il che significa dimenticare che nell’uomo si mescolano in maniera non sempre prevedibile gli insondabili istinti ancestrali con le pressioni più varie derivanti dalla sua socialità.
L’esempio del nuoto mi sembra un buon paradigma del rapporto tra addestramento e applicazione, utile a far riflettere sull’eterno problema dell’efficacia. E d’altronde basterebbe chiedersi in che senso siano ancora efficaci discipline come lo Iaido e il Kyudo per fare qualche riflessione un po’ più interessante di quelle che si sentono o leggono in genere (se vi interessa la mia modesta opinione: sono efficacissime, il che non nega che oggi risulti un po’ scomodo portarsi dietro un arco giapponese o anche solo una katana).
Voglio però concludere con un aneddoto reale, che a mio avviso è ben significativo. Un mio vecchio amico, grande appassionato del  mare e della pesca, ha un figlio, che chiamerò F., attualmente di otto anni. Avendo il desiderio di portarlo in barca il prima possibile, il mio amico ha iscritto prestissimo (a tre-quattro anni) il piccolo F. a un corso di nuoto. Il bimbo, durante tutto quell’inverno, imparò in fretta e bene a nuotare in piscina, sorprendendo anche gli istruttori. Buon sangue non mente, pensava il mio amico!
Alla prima occasione utile, all’inizio dell’estate, tutta la famiglia uscì per la prima gita in barca. Con grande sorpresa del papà, il piccolo F. si rifiutò categoricamente di entrare in acqua anche solo per fare il bagno con gli altri. Quando gli si chiese il perché, rispose: “ho paura, qui non ci sono i bordi!”. E poi: “non si vede cosa c’è sotto!”.
Il mare vero, anche quando è tranquillo, non ha confini, e non sempre se ne vede il fondo. Essersi abituati a nuotare –avanti e indietro- in uno spazio chiuso non è necessariamente un vantaggio.
A distanza di alcuni anni, questa storia ha ormai un lieto fine: il piccolo F. si annoia sempre un po’ ad uscire in barca con i suoi, ma ormai ha preso dimestichezza con il mare e nuota come un piccolo delfino.
Questa storia, però, ha anche una coda, un finale ancora aperto che ci riguarda da vicino. Il piccolo F., che ormai più che del nuoto è appassionato di football, mi ha confidato di essere a disagio con i compagni di gioco perché sono un po’ aggressivi e maleducati. La madre, per insegnargli a difendersi, ha pensato di fargli frequentare un corso di arti marziali. Probabilmente il piccolo F. a settembre si iscriverà a Judo.
Sono certo che gli farà bene, ma anche lì dovrà ricordarsi che nel mare vero non ci sono confini, e che non sempre si vede il fondo.
prof. Augusto Guarino



27 commenti

  1. A. D'Alessandro wrote:

    Scusa Augusto ma io ci vedo una sorta di fragilità in tutto questo… qualcuno direbbe “avere la coda di paglia” ed altri “la lingua batte dove il dente duole”. A nessuno verrebbe in mente di chiedersi se una persona che pratica karate possa essere infallibile o no. Se il tizio è bravo e se è pure fortunato… nel senso che incontra un soggetto meno bravo di lui…tutto normale, tutto prevedibile e quantificabile.Ma questo non per quanto ha a che fare con l’aikido. La categoria “finzione” è tutta nostra! Certo chi pratica da anni, se non è proprio un soggetto ottuso ed irragionevole, certo soffrirà per gli attacchi annunciati e le tecniche” prescritte”. Il nuovo lavoro però probabilmente ci permetterà di liberarci di questa piccola sofferenza… che in fondo in fondo all’animo da una infinità di anni ci fa essere inquieti sull’argomento.
    A presto.

  2. Augusto Guarino wrote:

    Appunto, cara Angela. Volevo proprio far venir fuori la fragilità. E magari rinegoziarne i confini.

  3. D.R. wrote:

    Probabilmente, è vero, il più grosso problema di chi pratica aikido è questa insicurezza dovuta al fatto che non è una disciplina agonistica: l’addestramento di nuoto funziona quando vinci una gara, il judo funziona se atterri l’avversario e anche lo iaido e il kyudo hanno un’applicazione nel confronto con l’avversario. L’aikidoka invece difficilmente troverà occasione per vedere se il suo aikido “funziona”. E questo genera tutta una serie di equivoci: a cominciare dall’applicabilità in strada, per così dire, per finire a quella sicumera che molti ostentano senza mettersi mai in gioco (finché l’uke cade ci sentiamo molto forti). In realtà, per come la vedo io, è proprio lì il difficile dell’aikido: è un’arte marziale quanto mai frustrante, in cui bisogna essere sempre consapevoli di essere impreparati, sempre troppo impreparati. E’ l’ego, in fondo, che va fustigato, come sempre. L’esempio del mare mi piace, perché rende bene l’idea: ci si può allenare quanto si vuole ma sarebbe una follia pretendere di “battere” il mare. O no?

  4. Augusto Guarino wrote:

    Sono d’accordo solo in parte. La gara può essere un buon test, da non disprezzare, ma è comunque una prova condizionata da regole rigide. Nella gara di judo non funziona il judo, funziona …. la gara (lo sport).
    Però mi sembra che tu abbia colto bene il “fondo” del discorso: qualsiasi arte di combattimento (o forse qualsiasi arte) è l’addestramento a un mare che non sempre è possibile prevedere (attenzione: non ho detto mai, e neanche raramente).
    Grazie per il post.
    PS: in che senso lo iaido e il kyudo hanno un “confronto con l’avversario”?

  5. A. D'Alessandro wrote:

    Si certo..la gara è solo un’ esperienza da “topini da laboratorio” di nessuna rilevanza. Ciò che fa la differenza tra l’aikido e le altre forme di arte marziale è, secondo me, il fatto che l’allenamento sia imbrigliato in una serie di circostanze che paradossalmente coinvolgono anche l’avversario. Io non conosco nessun altra forma di arte marziale nella quale accade ciò… mi sembra di intuire l’esistenza di kata che costituiscono una sorta di allenamento individuale ma non credo si “patteggi” da nessuna parte la posizione e la risposta dell’avversario. E’ questo destabilizzante: il fatto di dover includere, tra le varianti, posizione e collaborazione di uke…assurdo….patteggiare la presa…assurdo….conoscere in anticipo il lavoro di uke. Chiunque pratichi anche solo uno sport da combattimento non compie un solo attacco, l’attacco è sempre multiplo e comprende anche i calci, e spostamenti repentini. Parte dell’allenamento ( kickboxing) viene dedicato proprio ad acquisire la capacità di mutare rapidamente posizione, angolazione di attacco. Perchè si deve continuare a favoleggiare su un uke quasi immobile che sferra un solo attacco? Non è necessario prospettarsi il mare come avversario per essere inquieti….basta molto meno. Un’ ultima cosa: quando la finiremo di vedere quelle acrobatiche cadute senza senso che servono solo a spettacolarizzare un lavoro altrimenti sciocco e ridicolo e che su una superficie leggermente più irregolare di un lucente parque rischiano di produrre seri danni? E’ il momento di dire basta e di concentrarsi su problematiche serie. Per pudore, solo per pudore.

  6. Augusto Guarino wrote:

    Cara Angela,
    mi sembra che nell’ultimo intervento tu ponga tre questioni, collegate ma anche indipendenti:
    1) le gare sono utili ?
    2) gli allenamenti con attacchi e risposte prestabiliti sono utili?
    3) le cadute (o meglio, ukemi) sono utili?
    La tua risposta, in tutti i tre i casi, è NO. Però possono esserci anche risposte diverse. Ad esempio, chiedendosi, “utili a che cosa”? Il che ci fa tornare alla questione dell’applicabilità dell’addestramento.
    Negli anni, mi sono date alcune risposte, un po’ più sfumate delle tue. Certo non definitive. Sarebbe interessante sapere il parere degli altri frequentatori del sito (magari non aikidoka).
    Besos

  7. D.R. wrote:

    Caro Augusto, nel riferirmi allo iaido e al kyudo ho fatto ovviamente degli errori: invece dello iaido, intendevo il kendo, per il kyudo, invece dell’avversario intendevo il bersaglio… comunque il senso credo che fosse chiaro.
    Per quanto riguarda il discorso di Angela sull’inutilità della caduta io direi, da un lato, che uno che sa cadere come Fabio Branno (ne dico uno a caso, si intende…) non si fa male nemmeno sui vetri (o comunque può attutire un impatto che per me sarebbe tragico); d’altro canto, per come la vedo io, dovremmo superare la retorica dell’utilità: perché ci dovrebbe essere qualcosa di utile? Se ragioniamo così non c’è proprio nulla che valga la pena di essere imparato, studiato, amato. Soprattutto le cose più importanti sono inutili, se uno ci pensa. Perché mai dovrebbe avere una qualche utilità fare ukemi piuttosto che fare hikkyo o tsuki?: in fondo l’aikido è un’attività sommamente inutile. Per fortuna non ci stiamo addestrando per la guerra. Inoltre, ci sono molte cose che apparentemente sono inutili: magari per un calciatore la rovesciata può essere giusto una spavalderia, però qualche volta ti può far segnare il gol della vita.
    Io sono fondamentalmente pigro e se posso tendo ad evitare il mae ukemi; però a volte, quando si comincia ad accelerare, è semplicemente necessario.
    Per quanto riguarda poi l’uke addomesticato sono perfettamente d’accordo con Angela. Però credo che, almeno nella nostra scuola, sia un discorso di livelli: all’inizio si chiamano gli attacchi e si offre al tori la possibilità di capire che sta succedendo e poi a poco a poco si cerca di migliorare, di aumentare il livello di difficoltà e di imprevedibilità, fino al juwaza e al randori. Non era così che funzionava?

  8. A. D'Alessandro wrote:

    Caspita…Fabio oltre che bello, alto ed intelligentissimo è pure magico! Sui vetri ci si taglia e se si usa qualcosa per attutire questa cosa, che si usa, impatta. Certo si può fortificare la cosa che impatta ma non mi pare che in aikido esistano simili protocolli. Chiedo scusa per il tono che ho sempre: il punto è che io non riesco ad essere per le mezze misure, se si appura la possibilità di sopravvivere ai vetri si deve fare un percorso adeguato che consenta probabilità di “sopravvivenza” realistiche….e questo mi pare non sia preso in considerazione in nessuna scuola, diversamente è inutile fare quelle cadute dannose ed inutilizzabili fuori dal tatami e comunque anche se è vero che sui tatami in percentuale capita di incontrare una elevata quantità di gente giovane questi scheletri sono comunque destinati ad invecchiare ed accumulare una serie indefinita di micro traumi non giova a niente. Non sono daccordo sul procedere per gradi: la mia generazione è satura di atteggiamenti, mentalità, reazioni e comportamenti che ora fa fatica a dimenticare tant’è che sotto stress…tipo esame il solito ikkyo cretino ricompare trionfante con estrema desolazione dell’insegnante che credeva di averlo cancellato dalle tue cellule. Si deve imparare in un unico modo: quello giusto.L’aikido è utile come può essere utile un’arte marziale ma tu come Augusto hai mostrato la tua fragilità..in fondo in fondo..hai delle riserve, delle inquietudini sulla sua efficacia..oppure no? Saluti.

  9. Augusto Guarino wrote:

    Sì, certo che ho delle riserve, ma non solo sull’efficacia e non solo sull’aikido. O meglio, penso che sia il caso di relativizzare. Che significa mettere le cose in relazione. Nel loro contesto. E quindi, quale è il contesto dell’aikido? C’è il contesto -perimetrato e convenzionale- del dojo. Poi si spera che ci sia il contesto illimitato e imprevedibile del mondo esterno.
    La domanda è: ci può essere un rapporto sano e costruttivo tra l’addestramento (necessariamente dotato di regole) e il mondo esterno? C’è un’applicabilità all’esterno di quanto praticato sul tatami?
    Secondo me sì, ma si tratta spesso di un’applicabilità indiretta, di un “trasferimento” dell’esperienza. Comunque credo che nel concetto di fondo siamo d’accordo: un buon addestramento deve avere delle regole e dei principi, ma non deve essere prevedibile, ripetitivo; soprattutto non deve essere finto. Una buona parte della questione sta lì: saper distinguere “convenzionale” da “finto”

  10. D.R. wrote:

    Cara Angela, purtroppo mi tocca, mio malgrado, rispondere ulteriormente, se non altro per rispetto.
    Personalmente trovo divertente l’ironia sottile delle parole: pare quasi che si vogliano vendicare sottintendendo quello che uno crede di poter nascondere con un dito. Hanno quasi una vita propria, le parole. E’ per questo che mi piacciono tanto.
    Fabio (che indubbiamente è alto bello e intelligente) è un esempio che ho fatto per intenderci. Sai che quando uno scienziato o un filosofo parlavano latino gli incolti bifolchi, non capendoci niente, pensavano che fossero maghi che recitavano formule magiche: è così che sono nate tante leggende, tipo quelle su Virgilio Mago a Napoli, o su Giordano Bruno. Purtroppo, di solito l’ignoranza tenta a guardare con sospetto tutto ciò che ignora e a infangare ciò che non comprende. Dico questo perché ironicamente era proprio ciò che dicevamo nei commenti alla tua tesi.
    Ora, proprio come per il latino degli scienziati, le maeukemi di Fabio non hanno nulla di magico. Probabilmente si taglierebbe anche lui sui pezzi di vetro. Però suppongo – forse ingenuamente, che devo dirti – che si farebbe meno male di te o di me. E questo non perché seguirebbe procedure particolarmente complesse o formule magiche. Chiunque quando cade si fa male, c’è poco da fare. Ma se uno non cade non si fa male – o no? Ci troviamo su questo? Non c’è trucco e non c’è inganno, no? Ora ai miei occhi Fabio costituisce un punto di riferimento per svariati motivi: è un ottimo maestro, è l’allievo più graduato del nostro maestro etc. In particolare, mi sembra che sia un esempio da seguire nelle ukemi perché, semplicemente, non cade, proprio come cercano di insegnarci a fare lui o il padre. O anche altri: perché agli stage vedo che molti eseguono le ukemi allo stesso modo. E cioè: senza impattare, senza “cadere”, senza lanciarsi etc. etc. A me sembra che sia una questione di sensatezza supporre che se uno “non cade” su dei pezzi di vetro si fa meno male di uno che ci “cade” sopra come un sacco di patate. No? E’ prestidigitazione, questa?
    E mi sembra anche che Fabio (oppure Alessio, se ti piace di più, oppure tanti altri dan che ho visto coi miei occhi! – toh! illusionisti!) non è che si limitino a “dire” come si dovrebbe o non si dovrebbe eseguire un ukemi – ma lo eseguono! Allora, di fronte a simili prodigi, mi scatta quello stato d’animo che il cinema ha immortalato in Frankenstein Junior (altro figuro a metà tra la scienza e la magia) e grido dentro di me: “si può fare!”, nonostante mi renda conto che la strada per arrivare a tanto prodigio, almeno per me, è ancora lunga e forse non ne vedrò mai la fine!
    E così veniamo alla seconda questione da te sollevata: la fragilità. Io credo che l’aikido sia – anche – una via per attraversare la propria fragilità (e in questo trovo una fondamentale corrispondenza con la filosofia). Ma attraversarla proprio in pieno, anzi acuirla, dilatarla, tagliarla. Credo che questa sia la vera radicalità. Altrimenti si rischia di scambiarla con la polemica fine a se stessa. Qualcosa che può servire solo a fortificarci nelle nostre convinzioni, denigrando tutto ciò che non ci è familiare. Viceversa, credo che dubitare sia l’atto fondamentale dell’intelligenza, anzi la scaturigine stessa della saggezza. Dubitare di tutto. Soprattutto delle proprie sicurezze. Solo gli stupidi non dubitano. E su questo penso che possiamo essere d’accordo. Ed è proprio per questo che l’aikido mi piace tanto e lo trovo un’arte marziale unica, sommamente difficile e frustrante, ma anche elevata e raffinata. Era quanto cercavo di dire con riferimento alle “gare”: l’aikido, proprio perché manca di un confronto con un qualsiasi tipo di avversario, non ti dà certezze su cui “attaccarti” (e proprio in questo mostra appieno la sua radice zen) per cui ti “costringe”, letteralmente, a lavorare su te stesso, a non fermarti mai. Nessuno potrà mai dire: “sono il campione del mondo di aikido”. Ma ci si deve sempre interrogare: questo ikkyo è efficace? faccio un buon ukemi? sono abbastanza veloce nel rispondere ad un atemi? Sotto questo aspetto, l’aikido è a tutti gli effetti un’arte della fragilità. Io però ne farei un elogio, più che una critica. E’ significativo che in Occidente abbiamo termini per indicare il morbido sempre molto denigratori: proprio “morbido”, ad esempio, deriva da “morbo”, quindi vuol dire malato, debole, di cui del resto è sinonimo. Fragile, anche. Forse per questo è difficile per noi altri comprendere certi atteggiamenti delle arti marziali orientali: la “via debole”, o dolce, del judo (che, scusate, ma a me fa subito pensare al “pensiero debole” di Vattimo); il vuoto; l’armonia dell’aikido; il wu wei ecc. Il problema è che noi occidentali abbiamo bisogno di sicurezze: l’impatto, il duro, lo scontro, ci rendono molto più sicuri di quella mancanza di punti di riferimento che esperiamo qualche volta, quando ci alleniamo ad aikido.
    Il vero problema è che siamo molto insicuri. E abbiamo bisogno di sicurezze.
    Detto questo, nessuno ci obbliga a fare aikido: se vogliamo avere sicurezza quando camminiamo per i vicoli di Napoli forse sarebbe meglio pagare una guardia del corpo, o girare con la pistola in tasca, che stare ore a riflettere se un ukemi sarebbe in grado di salvarci da un’aggressione. O magari si potrebbe stare semplicemente più sereni e rassegnarsi a dare il portafogli se te lo chiedono. Magari, se uno non è attaccato a niente, non può perdere niente. No? Non è questo in fondo l’aikido?
    Io penso che sarebbe molto meglio se parlassimo meno e ci allenassimo di più, senza pretese di formulare una teoria universale dell’aikido, ma volta per volta imparare a fare le cose che il maestro ci indica, con l’umiltà di sapere che le stiamo sbagliando comunque. (Questo risponde in parte alle tue osservazioni sugli esami: solo che non ho capito cosa dovrebbe cancellare dalle mie cellule il maestro visto che non ho mai nemmeno sentito parlare di un ikkyo prima che lui me lo insegnasse. E qua scatta un’altra questione che è troppo lunga da esaurire in una parentesi: la differenza tra forma e tecnica e tra esami e “aikido libero”, per così dire. Schematicamente: se ad un esame il m° mi chiama ikkyo, devo cercare di fare qualcosa che possa vagamente assomigliare a un ikkyo? E’ un po’ come con la matematica: se fai un esame di geometria analitica, penso che debba saperle svolgere le equazioni di secondo grado, anche se certamente non ti serviranno mai per fare la spesa, e non ti salveranno di certo dai raggiri di un verdumaio. Ovviamente resta un’altra via: nessuno ti obbliga a sostenere un esame di geometria analitica!)
    C’è sicuramente un’esigenza diversa, da parte tua, Angela, rispetto a me; poiché mi sembra di capire che tu ti poni problemi da insegnante. Ovviamente, è una prospettiva che non mi riguarda affatto perché almeno per il momento mi dedico unicamente all’apprendimento. Io non so se da un punto di vista didattico funzioni meglio un aikido senza ukemi o senza ikkyo e via dicendo. So però, sulla mia pelle, che se acceleri il ritmo, prima o poi un maeukemi su shionage lo dovrai fare per forza, senza stare troppo a pensare se a terra c’è il tatami o le pietre o i ceci, semplicemente perché se no ti fai male il braccio. E mi è capitato anche un sacco di volte di constatare che il mio margine di scelta è molto illusorio, perché se un buon tori ti vuol far fare un maeukemi ti ritrovi a farlo senza nemmeno sapere come. Al massimo puoi opporti, se rimani attaccato alle tue insicurezze, e ti fai certamente molto male. Ma se ti liberi, viene tutto spontaneamente. E questa è una sensazione bellissima, di assoluta libertà: finalmente sei libero di non stare lì a pensare cosa fare e cosa non fare. Accade quel che accade. Semplicissimo. E molto zen. Faccio aikido forse solo per questi pochi momenti di serenità. Per questa bellissima sensazione che puoi provare solo sul tatami, sul corpo, e che non puoi ricostruire artificialmente attraverso nessuna tecnica. Ma solo agendo.
    Poi, forse, non sono ancora abbastanza illuminato da distaccarmi dalla paura delle brutte figure: immagino il giorno in cui, con la mia bella cintura nera (sperando che arrivi quel giorno!), mi presento ad uno stage del m° Tissier, il quale nota un viso nuovo e mi chiama a fare da uke su uno di quei suoi shionage immediati. E io, che non so parlare nemmeno francese, dovrei dirgli: “no, maestro, mi scusi, sa, ma dovrebbe andare un po’ più piano, perché io i maeukemi non li faccio”. Francamente vorrei risparmiare l’imbarazzo a me, al mio dojo e al povero m° Tissier, il quale che potrebbe fare se non dire “tres bien” e chiamare il caro Fabio che, a detta sua, “c’est plus grand, beau et tres intelligent!”.
    Sono molto egoista, in questo, lo ammetto: preferisco lasciare ad altri il compito di stabilire quali siano le forme migliori, o più vere, o più didattiche, di ikkyo, nikkyo e sankyo. Io mi limito a cercare di eseguirle, come posso, e cercando di divertirmi sul tatami. Interrogandomi continuamente per attraversare in pieno la mia insicurezza. Per lavorare sulla mia insicurezza. Abbandonarmi alla mia insicurezza. “Fare vuoto del vuoto”?

    ps: scusate la prolissità e grazie per aver letto fin qui…

  11. A. D'Alessandro wrote:

    Niente ironia…ieri in televisione ho visto le scene di un attentato: più cadaveri ben esposti…ho continuato a pranzare. Questo per dirti che la nostra soglia critica si sta abbassando ..è estremamente pericoloso. Non sono cosi stupida da non capire che la tua era una metafora per sottolneare l’abilità di Fabio e quindi i traguardi che uno “potrebbe eventualmente raggiungere”. Il punto è che la soglia di attenzione si è abbassata e la gente potrebbe pensare di rifare certe bravate che vede in televisione….le cose ci scivolano addosso, un morto, due, buttarsi nella piscina dal balcone di un albergo. Quanti ne sono morti lo scorso anno in questo modo? Meglio ribadire che sui vetri ci si taglia. Resta il fatto che la giravolta per aria per strada per me è una cosa stupida e pericolosa e lo è ancor più l’allenamento in palestra a questo inutile scopo…te lo dice una che ha due vertebre schiacciate e che non può più farsi una bella corsa o portare qualcosa che pesi più di un paio di chili. Per la faccenda della sicurezza io ho voluto tirarla fuori perchè vorrei essere circondata nell’ambiente che frequento da gente consapevole e certi disagi mi piace vengano fuori perchè spingono ad uno studio serio ed alla messa in discussione di tutto ciò che viene proposto. Una specie di provocazione , un invito alla riflessione di inizio anno utile soprattutto a me. Per il resto sfondi una porta aperta: io sono la regina delle insicurezze. Ti prego…non tirar fuori anche tu la favoletta del parlare di meno ed allenarsi di più…i tatami sono pieni di gente che ha 30 anni di pratica e non sa fare nulla…non è questa la strada atrimenti il livello non sarebbe cosi scadente anche nei gradi elevati. Fabio ha scritto cose molto carine sul suo blog..lì puoi trovarci l’ikkyo cretino di cui sopra che lo stesso Fabio rifiuta e disconosce. No…io non ho la prospettiva di insegnante ma non accetto che qualcuno pretenda di insegnarmi qualcosa che non condivido…che non abbia una razionalità intrinseca.Per fortuna con il mio insegnante attuale questo non accade perchè dà ragione di ogni piccola sfumatura della pratica e del discorso. E’ una questione di età…tu sei molto più giovane di me e quindi meno intollerante. Per quanto riguarda Tissier… a me non importa di ciò che potrebbe pensare di me…anche perchè anch’io penso diverse cose di lui.

  12. Augusto Guarino wrote:

    Cara Angela, a costo di sembrare pedante e invadente, colgo l’occasione per dichiarare quale sia la risposta che mi sono dato al perché delle mae-ukemi, più o meno spettacolari.
    Servono?
    Secondo me sono un ottimo esercizio per capire e praticare la coordinazione e il rilassamento. Se non si è coordinati e rilassati, ci si fa male.
    Servirebbero in strada? Mah…. a un livello altissimo possono funzionare anche sull’asfalto e sul cemento. Però secondo me praticarle serve anche a capire quando NON vanno fatte.
    Sono piacevoli? Non sempre; ma sempre meglio che cadere come un sacco di patate.
    Questa è la mia risposta, IMHO

  13. vito wrote:

    ciao a tutti, praticanti e non. Penso che ci siano due tipi di praticanti: quelli goffi ed insicuri che scrivono inutili tesi per darsi un tono e commenti sciocchi che derivano da pippe mentali. E poi ci sono i veri e grandi praticanti che leggono tutte queste sciocchezze e sorridono

  14. A. D' Alessandro wrote:

    Mio Dio Augusto! …non so come ti riesca di far arrabbiare così tanto la gente!…a no!…la tesi inutile è la mia…non voglio darti meriti che non hai…comunque tanto per chiudere l’argomento è ovvio che ciò a cui mi riferivo era quell’allenamento ossessive e quelle cadute fatte a tutti i costi anche quando la situazione non lo richiede per spettacolarizzare ..ogni esercizio del resto può avere una qualche sua forma di utilità……in strada…prego…

  15. Augusto Guarino wrote:

    Caro Vito,
    come invidio quelli, come te, che hanno tante certezze!
    Secondo me ci sono ben più di due tipi di praticanti, così come ci sono tanti tipi di persone. E ognuno si fa conoscere per quello che è.
    Ti auguro tanto allenamento, perché ne abbiamo bisogno tutti. Mentre ai grandi praticanti auguro tanti salutari sorrisi.
    AG
    PS: chiarisco che a) essere goffo per me è un dato di partenza, nel senso che è uno dei motivi per cui da più di venti anni faccio aikido; b) non sono contrario alle “pippe”, di nessun tipo: fisiche, mentali o Middelton.

  16. vito wrote:

    ciao augusto e angela. Avete la fortuna di avere come maestro uno tra i più grandi non solo della vostra associazione fabio i grandi maestri giapponesi li mangia la mattina a colazione. Allenatevi allenatevi. Chiedete a lui perché gli ukemi coreografici ? Sono certo che ti risponderà dicendo che sono necessari per acquisire elasticità e confidenza con il nostro corso.

  17. Mi piacerebbe tanto discutere con voi di questo argomneto; ma temo (COME SEMPRE) che Angela mi aggredisca verbalmente. Forse una forma di antipatia congenita nei miei confronti. E francamente mi auguro che non faccia parte del suo DNA.

    Ciao Augusto.

  18. A.D'Alessandro wrote:

    Non dirò una parola, non soffro di antipatie congenite, non la conosco e dunque non posso avere nei suoi confronti alcun genere di inclinazione, apprezzo molto i punti di vista che provengono dagli insegnanti( purchè adeguatamente motivati), sono contenta che altre persone esprimano opinioni che però rifuggano dal senso comune.

    Ciao Augusto

  19. D.R. wrote:

    Scusate, non vorrei gettare altra benzina sul fuoco, però alcune cosucce le vorrei dire. Per fortuna, siamo semplici allievi e una chiacchierata per confrontarci sui dubbi e sulle perplessità che abbiamo ce la possiamo fare tranquillamente, senza dover assumere un contegno particolare: in faccia ai comuni mortali il sorriso dei grandi risulterebbe goffo quanto la paresi di un ebete. E, come dicevo, non sono abbastanza illuminato da non preoccuparmi delle brutte figure.
    Allora, quello che volevo dire riguarda il ragionamento di Angela, che, mi spiace, ma non riesco ad accettare: a volerlo sviluppare, si dovrebbe fissare il limite di velocità di 50 all’ora per la formula 1, oppure vietare il salto in alto perché a qualcuno potrebbe venire in mente di scavalcare i cancelli saltando di schiena. E’ ovvio che ogni attività fisica, e sportiva in particolare, prevede uno spazio dove praticarla: anche il ciclismo diventa rischioso in una città che non ha, per l’appunto, piste ciclabili.
    Io la vedo così: ci sono dei livelli. Più in alto si va, in un’arte marziale o in uno sport, più sono richieste certe condizioni di pratica. Il calcio rimane calcio sia quando viene giocato per strada, sotto casa, sia al Camp Nou. Ma è evidente che a nessun ragazzino verrebbe voglia di fare una scivolata sull’asfalto e non c’è bisogno che lo ricordi, per dire, il telecronista (“i giocatori in campo sono professionisti, non cercate di ripetere le azioni mostrate nel seguente filmato”). E mi sembra folle annullare il gol di Cavani in rovesciata al Camp Nou solo perché i ragazzini potrebbero imitarlo (in effetti, l’eccesso di spettacolarità mi sembra, a tutt’oggi, l’unico motivo plausibile per averglielo annullato – vabbè scusate, dopo il 3-1 al Milan sono un po’ troppo soccer-oriented). Ne’ credo che uno si alleni nella maeukemi per poter andare a fare salti mortali per strada. Lo stesso Fabio, per quanto alto e bello, credo sia abbastanza intelligente da non avere alcuna voglia di mettersi a saltellare sui pezzi di vetro. Però, a rigor di logica, perché non ricordare anche quanto sia pericoloso camminare a piedi scalzi per strada oppure che forse non è il caso di uscire dal tatami con indosso il keikogi? Credo che nessun praticante di aikido sia così fanatico. Anche perché non credo che l’allenamento di aikido si prefigga come scopo quello di applicarsi per strada. Io credo che un aikidoka non abbia alcuna voglia di fare a botte. Altrimenti non è un aikidoka, tutto qui. E’ un egocentrico che vuole sfruttare alcune tecniche per sentirsi più forte e sicuro. O magari più figo, che ne so.
    E questo, secondo me, è l’aspetto più importante, quello che poi mi premeva sottolineare. Io non credo, Angela, che la soglia d’attenzione sia bassa. Anzi, in generale, credo che la soglia sia fin troppo alta: l’effetto d’assuefazione delle immagini televisive produce una sorta di paranoia schizoide, piuttosto che un’indifferenza e uno sprezzo del pericolo. Il fatto è che noi vediamo pericoli ovunque senza avere alcuna esperienza nel gestire situazioni di pericolo. Le nostre auto sono così sicure che guidiamo sul bagnato come se fosse asciutto e la cosa assurda è che il più delle volte ci va bene! Ma poi andiamo in tilt se anche solo si buca la gomma. Anzi, a dirla tutta, credo che lo “sport” di lanciarsi dai balconi dell’albergo in piscina, o lo sport nazionale di schiantarsi in faccia a un palo il sabato sera, siano piuttosto l’effetto di reazione all’asfissia di una società che vuole esorcizzare e reprimere qualunque forma di pericolo. Non è certo la formula 1, il problema. Secondo me dobbiamo semmai abbassare un po’ la soglia d’attenzione, avere un po’ meno paura, anche di farsi male: gli incidenti possono sempre capitare, in qualunque attività, e anche a stare nel letto alla lunga ci si atrofizza.
    Questo confronto con la paura e questo superamento della paura egotica per la propria incolumità sono, a mio avviso, uno degli aspetti più importanti dell’aikido, che passa attraverso un confronto costruttivo con la paura che si prova sempre di fronte a un aggressione (sia pure formalizzata come sul tatami). E questo dovrebbe, a poco a poco, aiutare a sviluppare una consapevolezza che travalichi i confini dell’io, che ci apra al mondo, che, anche, ci disarmi, una volta tanto, dandoci la possibilità di vedere gli altri, anche l’eventuale aggressore, non più come nemici da cui difendere l’inviolabilità della propria roccaforte, ma sempre piuttosto come un’occasione e un’esperienza che ci struttura dall’interno, perché è di tutte le relazioni e solo di esse che siamo costituiti. L’aggressore rompe l’equilibrio dell’universo, direbbe O Sensei. Ma lo rompe anche il difensore se pensa solo a sbarazzarsi del nemico e a batterlo. Io è già altro, per parafrasare Rimbaud.

  20. A. D'Alessandro wrote:

    No Diego..io non ho detto che ogni attività che abbia in se una pericolosità intrinseca debba essere bandita anche perchè per fare la formula uno mi servirà una ferrari o l’emulazione non riesce invece buttarsi dal balcone si. Dopo il primo morto avrei giurato non ce ne sarebbero stati altri…invece si e molti.Tu dici perchè la gente si sente soffocata? Io dico no perchè i video giochi dove si gioca a sparare alle prostitute hanno creato forme di alienazione e di distacco dalla realtà per cui si ha sempre la sensazione di giocare tanto mentre giochi non ti accade nulla. Molti..troppi.. tantissimi ragazzi passano ore a giocare ai videogiochi. Le cose che ho scritto ultimamente vogliono essere un richiamo alla realtà, alle cose concrete, ai problemi reali…per me strada significa definire la disciplina: è un’arte marziale si o no? Certo nessuno si prefigge di andare in giro a cercare lo scontro ma non si può perder tempo e salute a saltellare inutilmente
    senza passare in rassegna quali potrebbero essere le situazioni concrete ed i problemi da risolvere. Sono daccordo con te nel sostenere che l’aikido possa consentire l’esperienza della “gestione della paura” nella acquisizione di una condizione che non riconosce lo scontro, lo nega. Ognuno viene in palestra per uno scopo proprio ma alla fine, a prescindere da chi prenda l’iniziativa di rompere l’equilibrio, la definizione: l’aikido è una disciplina marziale…è ancora valida? Se si allora definiamo una volta per tutte che respirare come un palombaro non serve a nulla, che sistemare mani e piedi secondo schemi precisi è perfettamente inutile, che il rilassamento è funzionale ad un miglior uso del corpo per esempio le spalle e non per far tutt’uno con l’universo e che sperare di incontrare un aikidoka che ti mostri il suo bel kotegaeshi…considerando la percentuale di praticanti nel mondo consentendoti finalmente di fare la tua bella caduta…è un’ opportunità veramente remota. Più facile un paio di pugni. Vogliamo volgarmente, squallidamente, tristemente cominciare a preoccuparci per quelli?

  21. D.R. wrote:

    per fare a pugni esiste la boxe. è molto meglio. non vedo perché uno si deve fissare a fare aikido se si deve sentire un palombaro.
    forse la domanda non è tanto se l’aikido sia un’arte marziale o meno. piuttosto è tu (ognuno di noi) cosa cerchi nell’aikido… il do è una via. forse prima di incamminarti su quella via devi decidere se è proprio in quella direzione che vuoi andare.

    ps: per favore, la storia dei videogiochi non si può sopportare – nemmeno nei peggiori talk show, ormai, hanno il coraggio di proporla. scusami ma non riesco ad accettare di ridurre le cose in maniera così semplicistica.

  22. A.D'Alessandro wrote:

    NON hai risposto…a prescindere da cosa uno cerchi è un’arte marziale o no? Vedi uno (noi) crede di essere a discutere dei massimi sistemi ed invece non si è ancora stabilito di che cosa si stia parlando. Forse sui giornali scrivono cose non vere però io ho letto di diversi casi di incidenti capitati perchè si è replicato acriticamente un video gioco….ma si sa questi giornalisti….Un fatto però non puoi negarlo e questo esula dal discorso dell’aikido. Ho sotto gli occhi mio figlio…ha 17 anni…589 amici su facebook…è sempre solo in una stanza…non credo abbia la più pallida idea di che cosa significhi interagire con più di 20 persone …non conosce a fondo nessuno di queste 20…più o meno i suoi compagni di classe …non significa questo una deformazione della realtà? Uscire in strada chiacchierare come la mia generazione faceva …era una cosa diversa….ma lui ha 589 amici. Credo si chiami ancora alienazione questa…. a prescindere dai talk show. Pare sia un dato comune tra gli adolescenti di oggi, e per me è semplicistico non trarre da questo dato nessuna conclusione. Ciao

  23. D.R. wrote:

    dannazione, mi tocca!…
    allora: questione arti marziali.
    “Arte marziale” è un’espressione che rende occidentabile concettualmente un insieme di pratiche e di discipline importate a partire all’incirca dagli anni ’60 e provenienti soprattutto da Cina, Corea e Giappone. L’aikido vi rientra, evidentemente. In maniera più generica, arte marziale può indicare qualsiasi tecnica, disciplina, insegnamento, addestramento che abbia più o meno direttamente a che fare con la guerra o con il combattimento. L’aikido vi rientra. Ma anche la boxe, la scherma medievale e la strategia bellica possono rientrare in questa seconda accezione.
    Tuttavia uno studioso come Pasqualotto considera “arte marziale” un’”abberrante definizione” perché tende a stravolgere il senso originario di certe pratiche (come il tai chi juan o l’aikido) che appunto hanno il senso di un do. Cioè una “via”. Una via per cosa? Per fare un po’ di movimento? Per fare sport? Per fare meditazione? Per andare in guerra? Probabilmente, dal mio punto di vista, ha ricadute un po’ in tutti questi campi, ma non ha di mira nessuno di essi. Se ci attacchiamo all’accezione occidentale di marzialità, e quindi supponiamo che l’aikido debba avere un’applicazione pratica per vincere una battaglia, io credo che siamo fuori strada. La scherma medievale, per dire, è efficacissima: però penso che sarebbe ridicolo il soldato che andasse in guerra in armatura, lancia in resta. E sarebbe altrettanto ridicolo il tizio che gira con lo spadone per i terribili vicoli di Napoli. Certo, uno spadone potrebbe tornarti utile in caso di rapina. Sempre sperando che non scatti una sparatoria. Ora, sicuramente l’aikido torna utile, se lo si vuol far tornare utile: lo si può applicare in una rapina, come tecnica di difesa personale, lo si può applicare in guerra, se ti capita un nemico nella jungla col machete in mano, lo si può applicare a livello di strategia bellica e a livello di strategia aziendale. Lo si può anche applicare al livello della diplomazia internazionale. Tuttavia queste sono solo ricadute dell’aikido, possibili forme di applicazione, “effetti collaterali”. Non ne costituiscono lo scopo, l’intrinseca ratio, per così dire. Lo scopo dell’aikido l’ha indicato O Sensei. Poi ognuno lo interpreta come vuole. Punto.
    Quello che a me fa problema è che io non riesco a spiegarmi il perché di questa esigenza di confondere semanticamente le acque. Io dico una cosa molto semplice: se volessi fare uno spaghetto a vongole, che cosa penseresti se cominciassi a dire: “però sai, la pasta, di sera, resta sullo stomaco, meglio il riso; poi a me le vongole piacciono con lo zafferano, vedrai sono buonissime; solo che le vongole non le ho trovate”… Non diresti “scusa, caro Diego, ma tu mi proponi lo spaghetto a vongole e mi prepari il risotto allo zafferano?”. Poi magari può anche essere migliore – ma non è la stessa cosa. O no? Per me, lo spaghetto a vongole lo puoi fare con le linguine, con gli spaghettini, ci puoi mettere o no il peperoncino, puoi metterci più o meno olio, ecc. ecc. (puoi anche usare le telline invece delle vongole, va’!) puoi rivoluzionarlo aggiungendoci, che so, lo zafferano, ma non ci puoi togliere gli spaghetti E le vongole. Altrimenti ci prendiamo in giro. Tutto qui.
    Mi sembra che tu faccia un po’ la stessa cosa quando dici: però basta con ‘sti maeukemi! togliamo ikkyo nikkyo e sankyo e giacché ci siamo evitiamo di inghipparci sulla respirazione. Per non parlare dell’armonia, del ki e dell’amore universale: idiozie! A poco a poco ci mettiamo la fascia in testa, due dita di colore sotto gli occhi e carichiamo il bazooka!…
    Dai sto scherzando. Però nondimeno questa esagerazione, spero, serve un po’ a spiegare qual è la mia perplessità rispetto alla tua “crociata” contro certi elementi dell’aikido, come gli ukemi.
    Infine, la questione dei videogiochi, l’argomentatio videoludentis, chiamiamola così: io sono molto sensibile, come tu saprai, sull’impatto che le nuove tecnologie, ed in particolare le tecnologie informatiche, hanno sull’essere umano, da un punto di vista, oltre che psicologico e sociologico, soprattutto ontologico ed esistenziale. Al limite, mi si potrebbe accusare di tecnofobia. In ogni caso non sono un entusiasta. Tuttavia trovo insopportabile la suddetta argomentatio perché è insostenibile – almeno – sotto due riguardi: 1. E’ insostenibile dialetticamente, cioè non è pertinente alla discussione che stiamo facendo: l’aikido non è paragonabile ai videogiochi, anzi l’aikido, insieme ad altre forme di meditazione dinamica o meno, che siano do arti marziali o la manutenzione della motocicletta, può rappresentare un’ottima antitesi al modello di società (e di uomo) che si sta formando sul modello della tecnologia informatica (“vuoi gettarti in piscina? e se provassi a fare due ukemi?”… ovviamente è una battuta eh). Quindi per come la vedo io vale l’argomentazione esattamente opposta. 2. E’ insostenibile intrinsecamente poiché non regge: i videogiochi pertengono alla simulazione, non all’emulazione. Non è solo un gioco di parole. E’ semplicemente stupido pensare che qualcuno veramente crederebbe di dover emulare Rambo, a meno che non soffra di seri disturbi psichici, nel qual caso sarebbe comunque un pericolo, con o senza Rambo. Queste forme di spiegazione psico-sociologiche si utilizzavano in certe teorie degli anni ’80 ma sono state di gran lunga smentite. Il pericolo dei videogiochi (della realtà virtuale) viene dalla simulazione, da ciò che Baudrillard definirebbe come un eccesso di realtà (non a caso la simulazione è definita augmented reality). Anche per quanto riguarda i problemi di tuo figlio con FB, ti consiglio vivamente una lettura un po’ più approfondita come potrebbe essere un testo di Eva Illouz (la Feltrinelli ha pubblicato di recente “Intimità fredde”) oppure Geert Lovink (c’è “Zero comments” pubblicato da B. Mondadori). Ma ce ne sono tanti, in realtà. Comunque, il vero problema di “questi giovani” non è certo che sono FB dipendenti: il problema è che i genitori preoccupati non lasciano loro altro spazio libero, altra intimità, se non quella finestra virtuale sul mondo che è FB. Il problema è che, tra maniaci, rapinatori, violentatori, delinquenti e drogati, oltre che casa-chiesa-scuola-campetto-palestra, i giovani hanno come unico rifugio internet dove possono trovare una (apparente) via di fuga dal controllo e dalla sorveglianza delle istituzioni degli adulti (genitori in primis): e su questo consiglio la bellissima “Charlie fa surf” dei Baustelle. Insomma la dipendenza è un sintomo, non è il vero male. Per l’anoressia vale più o meno lo stesso discorso. I videogiochi davvero non c’entrano niente. Ne’ l’emulazione.
    Ovviamente il problema è anche più complesso, ma veramente sto cominciando ad esagerare, con la prolissità. Però, per quanto si possano avere visioni diverse, vorrei solo che si evitassero opinioni vacue, tanto più che i problemi ci sono e hanno la loro gravità. Non li si risolve con i luoghi comuni. Piuttosto, credo vivamente che una via per affrontare questi – ed altri – problemi sia quella indicata da alcuni ben più saggi di noi: il tao, ad esempio, o l’aikido (ma ci sono sempre anche i nostri, eh, anche se sono passati un po’ di moda). E si ritorna al punto di partenza. Tutto sta a decidere che strada vogliamo intraprendere. Poi ognuno è libero di scegliere la propria.

  24. A. D'Alessandro wrote:

    Tu non hai figli altrimenti sapresti che facebook non è un problema …e tanto meno di mio figlio il quale vive in un paesello dove può fare ciò che vuole, dove ancora le chiavi si lasciano vicino alle macchine, alle moto ed alle porte di casa…Face book è oggi una realtà, un modo d comunicare,di vivere concreto e chi non c’è è fuori, dalla classe, dal giro, dalle informazioni più elementari..voglio dire è un dato irrisolvibile che guarda caso dispone alla alienazione nei rappori. troppo in là siamo andati comunque a me definire un’ arte marziale l’aikido mi serviva per stabilire finalità e mezzi e mentalità…non a caso quando si parla della mentalità di uke il Maestro dice colpite per uccidere, un solo colpo definitivo non per il combattimento. Detto questo ognuno persegue i propri scopi…Caspita quante cose sai sul dato storico e culturale delle arti marziali compreso l’aikido…finalmente Augusto ha trovato un degno interlocutore. Direi di chiudere qui perchè pare l’argomento non sia di grande interesse fatto comprensibile anche alla luce di ciò che dici ( ed è vero) che ognuno può seguire le proprie inclinazioni ed il proprio percorso. Oddio questo complica un pò perchè ciascuno può sventolare le proprie motivazioni ed i propri stili tipo…muoversi a rallentatore e per fasi che ho visto fare in un filmato …ma tanto sono i presupposti a generare le conseguenze…basta non metterceli e tutti avremo un pò di ragione.

  25. D.R. wrote:

    Scusami Angela, forse ho sbagliato sin dall’inizio a cominciare questa discussione. Altri, più saggi di me evidentemente, lo hanno evitato. Però io sono stupido, che devo farci, non capisco certe cose. Leggo due o tre volte le cose che scrivi perché cerco di capirle. Le rispetto, le analizzo, ma non le capisco. Che ci posso fare? Ho sempre la sensazione che non ti attieni mai al merito delle questioni: prima metti in mezzo i videogiochi, poi fb, poi fb non è un problema, però è alienante, e continuo a non capire cosa diavolo c’entri questo con l’aikido. Abbiamo appurato che l’aikido è un’arte marziale ma ancora non ho capito quali siano le finalità i mezzi e i fini di un’arte marziale, secondo te. Poi decidi di chiudere l’argomento, come se gli argomenti si chiudessero a piacere. Io davvero non capisco tu che cosa cerchi, nell’aikido, nelle arti marziali, in questa discussione. Forse capirò tutte queste cose non appena sarò una mamma con un figlio di diciassette anni e circa cinquecento amici su fb?
    Mi chiedo: ma almeno hai letto quello che ho scritto? Oppure non ne vale la pena, perché se i presupposti non sono i tuoi non posso scrivere nulla di sensato? Per discutere con te devo essere te? Io proprio non capisco, davvero.

  26. A. D'Alessandro wrote:

    Non hai sbagliato e sono io ad essere forse approssimativa nelle espressioni ed a compiere inutili voli pindarici. Ho proposto di chiudere la discussione perchè ho constatato che a nessuno interessa …il tuo punto di vista l’ho capito eccome ed ho letto ogni cosa anche perchè tu scrivi molto bene ed è piacevole farlo. Niente volevo solo giungere a qualcosa, dei parametri concreti… forse forzando la mano ma questo non è possibile….

  27. Filippo wrote:

    Scusate, ho cominciato a praticare aikido da poco, di primo acchitto trovo la domanda “l’aikido è utile?” alquanto bizzarra, ma poi ragionando sul fatto che la stessa domanda se la fanno più di un praticante (lo si legge anche qua,) che praticano questa disciplina da sicuramente più tempo di me, mi viene da pensare e da riflettere. La butto là… se effettivamente l’aikido non funzionasse perchè mai interi reparti di polizia e militari ne vengono addestrati?

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