Aiki towa tokeba mutsukashi michi naredo

Il grande spettacolo simbolico dell’espressione artistica esprime oggi, meglio di ogni altra possibile forma di denuncia, la dolorosa frammentazione che l’occidente moderno ha prodotto nel soggetto <<uomo>> E’ soprattutto nei confronti della componente “corpo” che il rapporto risulta ambivalente e contraddittorio. Il corpo sembra essere diventato l’unica vera sostanza, materia da modellare ed esibire, da conservare intatta in una sorta di eterna giovinezza dai bisogni irrinunciabili.

All’opposto il corpo sembra essere diventato, da un punto di vista biologico, un organismo insufficiente ad entrare in relazione con il mondo esterno. La sua obsolenza biologica è colmata da innumerevoli e sempre più innervate protesi di natura elettronica. Nell’arte contemporanea l’immagine tecnica serve all’artista per fissare l’irriconducibilità del soggetto ritratto ad una qualsiasi unità identitaria. Il corpo appare sempre deformato, frantumato, esploso; la sua ricomposizione è sempre disarmonica, eccedente, casuale. L’arte diventa, perciò, cassa di risonanza di questa alienazione ed estraneità. La Body Art insiste, quasi esclusivamente, sulla esibizione da parte dell’artista del proprio corpo, quasi a volerne sottolineare e constatare l’esistenza, sottoposto ad alterazioni, travestimenti o a prove dolorose. Questa la caratteristica principale del corpo attuale:di possedere e di esplicitare, in tutte le sue manifestazioni ed i suoi comportamenti, la consapevolezza ed i segni di una avvenuta mutazione. Siamo più alti, più belli, più longevi, più resistenti, più intelligenti. Ma siamo anche sempre più in comunicanti, devalorizzati, disumani, ”post-umani”. La pratica dell’Aikido rappresenta una preziosa possibilità di riappropriazione e di riconciliazione. Le modalità di interiorizzazione ed immagazzinamento della tecnica, mediante la ripetizione, nella memoria corporea, significano la possibilità di superare l’ostacolo del pensiero discorsivo, canale preferenziale di comprensione ed interazione con la realtà nel mondo occidentale, recuperando una dimensione intuitiva, naturale, non conflittuale. Riappropriazione,  dunque,  di uno spazio interno ed occupazione cosciente di uno spazio esterno. Lo spazio interno,  la percezione dell’identità nelle modalità psichico-energetiche attraverso il confronto nella pratica, viene modificato e quindi avvertito per differenza. E’ proprio l’idea di modificare ciò che si percepisce che consente l’intuizione del proprio se,  per differenza ed adattamento. Viene cosi delineata una coscienza corporea inserita,  ma nello stesso tempo differenziata dallo spazio esterno la cui percezione è essenziale per orientarsi nell’azione. Ed è il cambiamento,  nel dinamismo della tecnica, a mettere in moto questo meccanismo di riconoscimento continuo dello spazio,  della posizione del proprio corpo nello spazio, della percezione della distanza dell’altro,  del sentire la propria energia interagire con l’altro,  in una educazione e quindi di  crescita costante della coscienza di se. Dopo aver affermato l’identità tra la Verità ed il Logos viene ora auspicato il superamento della mediazione del linguaggio nella apprensione della realtà:è questa la direzione intrapresa anche dal pensiero occidentale. La stessa filosofia del linguaggio del XX secolo ricerca il  superamento del linguaggio in direzione delle sue condizioni non linguistiche,  il radicamento corporeo del linguaggio nel gesto. Posizione condivisa da scrittori come Marcel Proust o pittori come Cèzanne il cui problema centrale fu quello di una creazione di senso che restituisse e manifestasse l’anteriore. Cosi Husserl nelle Ricerche Logiche compie un tentativo di riportare il linguaggio nel suo insieme alle modalità di apprensione della realtà che trovano espressione nel linguaggio. Si riparte perciò dalla percezione,  dal corpo cosciente. Il riferimento alla filosofia del linguaggio trova la sua utilità nel momento in cui non si può fare a meno di notare la straordinaria coincidenza per la quale,  anche per la Fenomenologia del Linguaggio “prodotto” della cultura occidentale dell’900,  il vero linguaggio non è più quello discorsivo,  descrittivo dal valore denotativo,  ma il linguaggio dei poeti dalla referenza connotativa… che significa il potere evocativo della poesia non solo nell’ordine dell’immagine ma anche in quello del sentimento e quindi della emotività. Il linguaggio attraverso il quale Ueshiba trasmette i suoi insegnamenti appartiene al KOTOTAMA, il linguaggio dello spirito, che è anche il linguaggio della preghiera,  dell’incantesimo,  della poesia della filosofia,  ed è l’anima risuonante della musica. I doka di Ueshiba non sono dunque il prodotto della vocazione poetica di una personalità singolare e stravagante, lontana nel tempo e nello spazio, ma, come secondo l’intenzione dello stesso autore,  la rappresentazione allegorica dell’universo e della vita dell’universo di cui le tecniche dell’Aikido rappresentano la forma. Ueshiba intendeva le tecniche quali strumenti per esprimere i principi spirituali dell’Aikido. Come a dire che, senza coltivare l’illusione di poter comprendere interamente,  una maggiore attenzione, un maggiore interesse nei confronti degli aspetti culturali e spirituali dell’Aikido un maggiore rispetto nei confronti di una cultura che esprime valori diversi e lontani da noi non rappresentano un complemento ma l’unico modo per avvicinarsi a questa Disciplina secondo lo spirito del suo creatore. Indubbiamente i doka del Maestro esprimono una distanza culturale e temporale molto grande ai fini di una interiorizzazione sincera, ma è importante sottolineare ciò che è alla base di tutto: una visione armonica, poetica, di continuità, di consapevolezza, di attività, di rispetto e di unità. E’ questa disposizione d’animo che deve essere recuperata  ai fini di una corretta pratica ed all’opposto è una corretta pratica che regala questa disposizione d’animo, come sempre in Aikido, in una spirale di continuità e di crescita. Dunque tecnica e ripetizione della tecnica per la focalizzazione del nostro spazio interiore, dello spazio esterno, delle conoscenza dell’altro e ricerca della corretta disposizione interiore anche attraverso lo studio teorico e l’apertura nei confronti di una cultura diversa. Potremo allora sperare di recuperare il nostro corpo non solo come strumento e mezzo ma soprattutto come esistenza sentendoci finalmente a nostro agio in un universo nostro che non è più un universo ”altro”.

A. D’Alessandro



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