Giappone religiosità e credenze

Il Giappone è per tradizione un paese scintoista. Il buddismo vi è stato introdotto nel secolo VI (Brocchieri & Nishikawa, 1999b). La sua influenza sulla società giapponese è stata molto forte, tanto che in alcuni periodi storici è stato accolto come religione ufficiale dello stato. L’influenza dello shintoismo non è venuta mai meno, anche se nel corso dei secoli ci sono stati dei tentativi di fusione fra shintoismo e buddismo. Lo scintoismo è un culto autoctono che si è originato, come il naturalismo e l’animismo, fra i primi abitanti del Giappone che adoravano come divinità i fenomeni della natura e gli spiriti dei morti ed è stata la religione ufficiale per tradizione. La fine della seconda guerra mondiale coincide però con un nuovo corso della religiosità. Dopo la guerra infatti la nuova Costituzione prevede una netta separazione tra politica e religione e assicura la libertà di culto. Per questo sono apparse nuove religioni alcune delle quali hanno come base lo shintoismo e altre hanno stretti legami con le sette buddiste. Altre ancora traggono origine da diversi orientamenti religiosi. Molte di queste religioni svolgono delle attività sociali e culturali nelle diverse comunità ma in questi ultimi anni i sentimenti religiosi si sono affievoliti nella gran parte della popolazione, anche se il popolo si rivolge sempre ai ministri del culto per solennizzare i momenti importanti della vita: nascite, morti, decessi. Questo fatto si traduce nella contemporanea adesione di molti giapponesi a tutte e due le religioni: risulta così che il totale dei fedeli è più alto del totale della popolazione (Brocchieri & Nishikawa, 1999d). Come scrive Marazzi la storia del Giappone viene spesso presentata “rigidamente divisa in periodi cronologici, corrispondenti a diverse fasi del dominio politico” (Marazzi, 1990). Le caratteristiche dell’economia, la diffusione della religione e l’etica hanno sempre avuto una connessione con l’attività politica e se si vogliono studiare i principi di base di una società come quella giapponese non si può fare a meno di considerare gli antichi riti, ancora oggi praticati in circostanze particolari della vita. In questo capitolo ho voluto prendere in considerazione l’aspetto religioso in quanto legato all’identità sociale del giapponese, facendo alcuni cenni alla storia e alla tradizione per poter capire le ragioni che per cui alcuni valori, come ad esempio ‘la lealtà’  verso chi è percepito superiore oppure la ‘pietà filiale’, si sono diffusi e sono rimasti fino ad oggi, nel sistema dei rapporti sociali. Nell’affrontare l’argomento religioso non si può non tenere in considerazione che l’aspetto tipico della cultura religiosa giapponese; la molteplicità delle religioni non si presenta come contemporanea esistenza di gruppi di diversa appartenenza, quanto come molteplicità di atteggiamenti religiosi esistenti nella coscienza di singole persone. E’ molto comune trovare persone seguaci di due o più religioni diverse. Infatti molte tradizioni religiose convivono le une con le altre, anche se sono di derivazione diversa e non si escludono a vicenda perché ogni culto ha particolari funzioni; ci si rivolge ad un tempio buddista per i funerali, oppure al sacerdote shintoista per placare gli spiriti della natura e per la purificazione.
Un altro aspetto che ho tenuto in considerazione è lo studio del rapporto fra l’individuo e la sua adesione al rito che ha origine anch’esso nell’antichità. Questo legame è fondamentale perché nel rito e nella fede, si impone il rispetto di una formula fissa emanata in una particolare circostanza dalla società che ha potere di riaffermare la supremazia delle leggi sopra gli individui. I riti sono indicatori che definiscono fasi che portano gli individui ad entrare in specifiche aree spaziali o temporali e attraverso le formule e l’imposizione di un rigoroso rispetto di regole fisse la società può riaffermare la supremazia delle sue leggi sui soggetti. Il ritualismo, nell’espressione orale e dei gesti, è un altro aspetto caratteristico della cultura giapponese. L’esecuzione formale che si manifesta nel rito si riproduce anche nel comportamento quotidiano. “Le formule di rispetto, nella conversazione, così come gli inchini, ricordano, a chi parla e agisce, e manifestano all’esterno, il rispetto delle gerarchie sociali e quindi l’adesione alla struttura sociale” (Marazzi, 1990, p.18). Ciò che è peculiare del rito giapponese è che le celebrazioni sono svuotate di senso quando non ci sono rigorose e apparenti manifestazioni formali. Il valore di un rito deriva da come esso è rappresentato e il suo contenuto è nella sua forma. “La comunicazione emotiva trasmessa da un rito, nella cultura giapponese, si serve di una elaborazione e di una mediazione estetica per ottenere la sua efficacia simbolica” (Marazzi, 1990, p.19).Come sopra accennato, l’adesione al rito religioso è facilmente collegabile all’importanza dell’etichetta formale e rigida che è visibile nei gesti e nelle espressioni. La formalità ricercata negli atteggiamenti deriva da una profonda ricerca di armonia, che si delinea attraverso il sistema di regole condivise dalla società.

1.1 Scintoismo e buddismo prima dell’età Meiji
(1) Lo scintoismo fu una religione importata dal taoismo Cinese anteriore al buddismo che ebbe molta importanza soprattutto perché predicava il patriottismo e il culto dell’imperatore. Lo scintoismo non era una religione mistica con lo scopo di aiutare l’individuo a dare senso profondo alla vita spirituale ma era più una ideologia della famiglia imperiale nella sua qualità di clan governante e da essa era stata introdotta per giustificare l’origine divina dell’imperatore. In Cina il taoismo aveva voltato le spalle alla politica e aveva sostenuto uno stile di vita appartato, mistico per i suoi seguaci, e si era talvolta rivelato anche una forza rivoluzionaria scontrandosi contro il governo confuciano. Era rimasta una religione per il popolo che mirava alla salvezza individuale e che era incapace di dare un giudizio razionale analitico della realtà. La storia della Cina è stata descritta spesso come la storia delle vicissitudini intercorse fra i burocrati confuciani e i contadini taoisti, e della rivoluzione culturale sviluppatasi come attacco al confucianesimo da parte del taoismo. Nulla di tutto ciò è avvenuto in Giappone e la religione non portò al comunismo cinese che mirava ad eliminare lo sfruttamento. Al contrario tale religione, soprattutto con la nuova età Meiji, fece da collante alle differenze fra città e villaggio, fra industria e agricoltura, fra lavoro intellettuale e manuale (Morishima, 1982). Dore scrive che si diffuse quando vi furono stretti rapporti con la Cina. Si diffuse perché era una religione i cui riti erano legati ai cicli dell’agricoltura che a quel tempo era il primo strumento dell’economia del paese e nei suoi riti veniva data una grande enfasi alla purificazione (Dore, 1971). Con l’emergere della supremazia della Famiglia Imperiale il kami (2) divenne legittimante il potere della struttura politica dominante. Nel quindicesimo, sedicesimo, diciassettesimo secolo i sacerdoti cinesi, coreani e i viaggiatori giapponesi importarono in Giappone le pratiche rituali del buddismo che si conciliò bene con la visione del mondo giapponese che prediligeva soprattutto i suoi concetti metafisici ed etici. Dopo il buddismo si diffusero molte sette che uscirono dal controllo dei sacerdoti buddisti che si videro i templi buddisti occupati per lo svolgimento dei riti shintoisti. Ci fu un grande mescolamento di riti e pratiche che con il tempo portarono dei profondi mutamenti nei rituali di origine. Il buddismo divenne molto importante soprattutto nel rito della comunicazione con gli antenati morti (Dore, 1971). Nel diciottesimo secolo venne stabilita come ideologia ufficiale il confucianesimo con l’intento di rendere centrali nuovamente i kami nei templi antichi, che erano stati precedentemente offuscati dalle sette buddiste. Coloro che vollero diffondere questa ideologia lo fecero con l’intento di contrastare quell’atmosfera di derivazione cinese che si era diffusa nei templi sacri con il buddismo. Queste ideologie vi rimasero per tutta l’epoca Meiji e contribuirono alla restaurazione dell’impero. Ma il tentativo iniziale di sradicare totalmente il buddismo fallì anche se in seguito i buddisti persero il controllo dei templi shintoisti che da quel momento assunsero un grande potere ideologico perché i leader politici, traendo vantaggio dai suoi principi, stabilirono una linea di condotta alla luce delle idee di una religione che riconobbero come nazionale. Questi templi divennero simboli della nazione. Allo stesso tempo le comunità che si erano sviluppate attorno ai luoghi sacri cercarono di purificare i templi da tutte le contaminazioni buddiste e si organizzarono in strutture gerarchiche con finalità amministrative locali e pur continuando ad essere il centro per eccellenza dell’attuazione di riti e punto di riferimento per le attività agricole in loco, diventarono anche luoghi di celebrazioni che avevano una importanza nazionale. Dopo questi mutamenti sociali il buddismo non scomparve ma rimasero i riti buddisti che riguardavano il contatto e la preghiera per i defunti delle famiglia (Dore, 1971). Nelle case moderne e tradizionali è facile trovare un altare buddista, dove si prega per i defunti. Questa cerimonia è importante soprattutto perché è simbolo dell’unità famigliare e deriva da un editto antichissimo imposto sempre nell’epoca Tokugawa. Per rendere forte la struttura religiosa a quell’epoca venne richiesta a tutte le famiglie l’iscrizione ad un vicino tempio buddista che aveva l’obiettivo di funzionare come ufficio di stato civile a vantaggio dell’organizzazione del potere politico centrale (Marazzi, 1990). Ma è importante anche l’osservazione che fa Morishima mentre parla della differenza che è stata caratteristica fra la Cina e il Giappone. Sostiene che mentre in Cina la religione aveva due funzioni, quella mistica e quella di giustificazione del potere conferito ad un re, in Giappone aveva soltanto la seconda funzione. Questa differenza è rilevante perché è la causa del fatto che in Cina non ci fu mai la stabilità politica caratterizzante invece il governo Giapponese che riuscì ad usare l’ideologia religiosa come appoggio (Morishima, 1982). Una delle cause che fecero mutare il buddismo originale deriva dal fatto che esso arrivò dall’India in Cina e dalla Cina in Giappone. Queste mediazioni sono state molto influenti nei cambiamenti che assunsero all’interno di diverse culture. Inoltre esso si è divaricato in filoni e sette perché non ha mai avuto un’organizzazione simile a quella della chiesa cattolica; nel buddismo esiste un clero, un monacato con le sue norme minuziose e pedanti, ma non c’è una organizzazione centrale a carattere dottrinario. Così mentre il buddismo insegnava ai cinesi il distacco dalle cose terrene e che la realtà nella esistenza non si doveva esaurire nel rapporto sociale e politico ma che la cosa più importante era la salvezza individuale, in Giappone questi valori vennero facilmente mutati e adattati alle esigenze e alla struttura sociale tipica. In particolare fu adottato con precisa funzione strumentale per potenziare l’autorità politica (Brocchieri & Nishikawa, 1999b).

1.2 Le istituzioni religiose e la sottomissione ai detentori del potere nella società antica del Giappone feudale dell’era Tokugawa  Il periodo del dominio Tokugawa (3) fu caratterizzato dall’introduzione di molte regole e leggi che divennero parte integrante della cultura e non soltanto applicazioni passive di norme. In questo regime è emerso con molto vigore la questione del controllo sociale e politico, come sostiene Franco Gatti (Gatti, 1999). Vi erano istituzioni non religiose che attraverso l’assunzione del compito di riscossione delle tasse rendevano ferrea la sottomissione al potere feudale detenuto dalla unità amministrativa del villaggio. I capifamiglia erano responsabili per tutti i membri del loro casato (parenti e non) ed erano considerati i loro responsabili legali (Marazzi, 1990). E’ interessante vedere come l’antropologia culturale abbia osservato i mutamenti della famiglia giapponese portando interpretazioni connesse alla struttura dei villaggi in età antica. Nakane scrive che in passato la famiglia e i gruppi locali della comunità rurale avevano una economia basata sulla coltivazione del riso e quasi tutte le attività erano organizzate attorno a questa unica risorsa. Non esisteva la famiglia nel senso classico ma un insieme di soggetti che potevano non avere parentela e che erano uniti dall’attività lavorativa (Nakane, 1967). Nel 1800 il Giappone era ancora uno stato feudale dominato da una casta militare, quella dei samurai (4) governati dallo shogun (Beatsley, 1975) e la terra era il fondamento della società tradizionale. Lo shogun era il feudatario più potente che aveva pieno controllo sui suoi sudditi, ed era libero da interferenze del governo entro i suoi confini territoriali. La società era rigidamente stratificata. Vi era infatti una gerarchia comprendete: il samurai, uomo di guerra e di governo, l’agricoltore, che produceva il riso, pagava i tributi ed era considerato il fondamento dello stato, l’artigiano, subordinato all’agricoltore, il mercante, considerato l’ultimo della gerarchia perché era impegnato esclusivamente in una attività di profitto (Brocchieri & Nishikawa, 1999c). La filosofia dominante si rifletteva nelle idee confuciane che sottolineavano la subordinazione della moglie al marito, del figlio al padre, del suddito al signore, così che nell’era Tokugawa si venne a formare una naturale alleanza tra l’autorità feudale e la dottrina confuciana. Nelle scuole ufficiali, finanziate dal governo dello shogun, si insegnavano i doveri di lealtà e di buon servizio In queste scuole si mandavano tutti i samurai di medio e alto rango, affinché imparassero i doveri della loro condizione sociale e che il benessere personale contava meno del benessere del gruppo, famiglia o feudo a cui l’individuo apparteneva. I filoni del pensiero buddista e confuciano portarono al rafforzamento del concetto religioso di ho-on che stava a significare “obbligazione”, reverenza al padrone. Con l’introduzione di questo concetto il compito fondamentale dell’uomo si identificava con il vivere una vita di riconoscenza per i favori ricevuti dall’universo, dai propri genitori, dai superiori politici. Così la lealtà e pietà filiale si venivano a fondere (Beatsley, 1975). Sempre nell’età Tokugawa la popolazione veniva sottoposta ad una minuzie di particolari imposti alla popolazione da leggi emanate dal potere politico. Ogni cittadino era autorizzato ad avere una casa di dimensioni proporzionate a quanto produceva; anche la qualità del materiale adoperato per costruire l’abitazione doveva rispecchiare la qualità di merito ottenuto attraverso il lavoro; chi produceva poco si poteva permettere soltanto un tetto fatto di paglia, chi invece godeva di più meriti aveva un tetto di tegole; anche il tipo di stoffa con cui erano cuciti i vestiti era fissato da un editto, così come l’uso di un ombrello o di un parasole (Marazzi, 1990). Gatti sostiene che il periodo Tokugawa viene indicato come lo stadio del feudalesimo “centralizzato” per indicare come i governanti si sforzassero di congelare la società nella struttura che essa aveva assunto alla fine delle guerre civili nel secolo XVI, struttura nella quale essi spartirono tra loro una autorità molto efficace. Come risultato si ebbe una era conservatrice caratterizzata da una struttura sociale molto rigida di classi, di norme, di ranghi e di privilegi (Gatti, 1999).

1.3 Le idee del confucianesimo e il concetto di “lealtà”
Il confucianesimo non è da considerarsi una vera a propria religione, ma nelle parole di Brocchieri è piuttosto una filosofia etico sociale con una marcata visione antropocentrica e un umanesimo che privilegia l’uomo rispetto alla natura e al soprannaturale (Brocchieri & Nishikawa, 1999d). E’ tutto concentrato sull’uomo inserito nella realtà sociale e la sua natura umana è in funzione dei suoi rapporti sociali. Il confucianesimo, anche se venne importato dalla Cina, in Giappone si modificò e venne per così dire adattato alla sua struttura sociale e ideologica (Morishima, 1982). Da tempi antichi era stato influenzato dalle idee cinesi. Molti importanti elementi caratteristici della Cina come la lingua scritta, la maggior parte delle forme letterarie usate, vennero a prendere parte della cultura giapponese. Le concezioni di regalità e famiglia, l’arte e appunto le idee religiose tratte dal confucianesimo e dal taoismo (che in Giappone divenne scintoismo) condizionarono in modo determinante il vissuto degli abitanti del Giappone nonostante esso sia rimasto sempre isolato dalla Cina, soprattutto politicamente. Mentre in Cina si era costituita una burocrazia imperiale dipendente da un gruppo di nobili colti, nel tardo secolo XII il Giappone si era distaccato dai modelli cinesi, volgendosi verso le forme feudali già descritte precedentemente. Le idee religiose del confucianesimo divennero parte del bushido, il codice della classe militare che rimase il codice del soldato e del funzionario. La morte al servizio del proprio signore era l’espressione massima della lealtà ed era importante tanto quanto il concetto salvezza in senso religioso(Beatsley, 1975). E’ importante il riferimento alla religione confuciana, quando si parla di ‘potere’ in Giappone perché sia nel periodo Tokugawa, sia nell’epoca Meiji il confucianesimo ebbe il ruolo di “giustificazione del potere”. Confucio considerava la “benevolenza”, la “giustizia”, la “cerimonia”, il “sapere” e la “fede” tra le virtù più importanti ma fra queste la benevolenza forse era la virtù che ricopriva il ruolo più determinante per l’umanità. Considerava la natura dell’uomo fondamentalmente buona e la sua pratica della moralità non stava nell’osservanza delle leggi ma nella capacità di estendere la famiglia come affetto naturale umano anche agli estranei. Chi riusciva a conseguire questo amore perfetto era considerato un uomo perfetto. L’obiettivo ultimo della cultura morale era di divenire un individuo con pietà filiale e con forte senso di assolvimento dei propri doveri tramite l’armonia, necessaria per raggiungere la benevolenza. Lealtà e fede erano le due virtù della sincerità.  Nella Cina il concetto di lealtà stava a significare sincerità con la propria coscienza e fede voleva dire verità. Fede e benevolenza (principale virtù in Cina) dovevano sempre accompagnarsi con la giustizia che era il principio di un governo virtuoso. Confucio rifiutava l’idea di governo costituzionale semplicemente perché portava l’uomo ad agire solo per evitare la punizione invece il perfetto cittadino era colui che si comportava in base alla cerimonia. In Giappone il confucianesimo prese direzioni diverse. Con l’età Meiji vennero abolite le caste sostituite dai clan, e rimasero le virtù confuciane seguenti: lealtà, cerimonia, coraggio, fede e frugalità. Non si diede spazio alla benevolenza che invece in Cina rimase il fondamento dell’ideologia confuciana. La principale virtù in Giappone divenne la lealtà con ancora un diverso significato dal concetto cinese: in Cina era fedeltà alla propria coscienza (infatti si poteva non obbedire al padrone se questo nel comportarsi era ingiusto e contrario a quello che dettava la coscienza), in Giappone invece significava sincerità espressa come devozione totale al proprio signore, fino al sacrificio di sé. Morishima scrive che una delle ragioni dell’assenza dell’individualismo caratterizzante la società giapponese è stata questa religiosità che ha imposto ai giapponesi l’obbedienza totale ai propri padroni. Infatti La lealtà è più forte del valore della pietà filiale (Morishima, 1982). Mentre la Cina rimase un paese confuciano civile con un confucianesimo più umanistico, il Giappone fu un paese confuciano militare con un confucianesimo nazionalistico.

1.4 L’anzianità e prestigio: concetti antichi manifesti nell’organizzazione del villaggio nel Giappone rurale.
Le famiglie nell’antichità erano organizzate in gruppi locali che avevano come comune attività la coltivazione del riso. Le costruzioni in cui vivevano gli uomini nel Giappone antico si chiamavano ie ed erano molto estese perché dovevano ospitare un insieme di gruppi coresidenziali che vivevano sotto lo stesso tetto, un insieme di soggetti che potevano anche non avere un legame parentale ma che erano unificati dallo svolgimento dello stesso lavoro. Il capo era la figura più stimata fra tutti i membri ed era un deterrente molto influente sulle menti dei contadini che traevano beneficio dalla sua protezione. C’era un antico proverbio che diceva: “le cose che l’uomo maggiormente teme sono: il terremoto, il tuono, il fuoco e il padre”. Il capo era la figura più stimata fra tutti i membri ed era un deterrente molto influente sulle menti dei contadini che traevano beneficio dalla sua protezione. C’era un antico proverbio che diceva: “le cose che l’uomo maggiormente teme sono: il terremoto, il tuono, il fuoco e il padre”. Il padre era il capo del gruppo famigliare, meritava rispetto perché incarnava l’ideale di superiorità derivato dalle ideologie feudali. Tutte le attività erano dirette dal padre che prendeva le decisioni finali ma non sempre egli era il padre naturale dei suoi dipendenti. Anche Nakane conferma che poteva capitare che sotto lo stesso tetto vivessero persone che non avevano legami di sangue con il capo ma che rimanevano comunque ospiti e godevano degli stessi diritti dei figli naturali del capo famiglia proprio perché svolgevano le stesse attività agricole (Nakane, 1967). C’erano molte forme di successione che dipendevano dalle necessità economiche. In territori caratterizzati dal benessere agricolo e dall’abbondanza di risorse non c’era una grande competizione e il padrone si sceglieva il suo successore senza attendere che i figli naturali crescessero e potessero prendere il suo posto; invece dove c’era grande competizione economica a causa della scarsità delle risorse e della mancanza di mezzi di rendita si sviluppava la successione primogenita. La successione poteva avvenire di padre in figlio, se il padrone non aveva figli il diritto aspettava al marito della figlia oppure il signore si sceglieva un successore senza aspettare i figli. In caso di molti figli il possedimento delle terre veniva concesso al figlio più anziano che veniva sottoposto ad una educazione particolare in vista del suo futuro ruolo nel casato. L’autorità del padre era rispettata e onorata soprattutto per il fatto che esso era “capo” del casato e solo in un secondo momento perché vigevano dei vincoli parentali specifici fra esso e i suoi dipendenti. Il grado in cui l’autorità del capo del nucleo famigliare veniva rispettata dipendeva dal valore economico che esso possedeva. C’erano signori che riuscivano con i loro investimenti e con le loro capacità di comando a rendere produttivo un territorio ricavando grandi quantità annuali di riso. C’erano anche famiglie più modeste che non riuscivano a raggiungere elevati livelli di reddito. Il capo della famiglia più ricca poteva godere del rispetto sia dei membri del suo casato, sia dei membri del villaggio, che lo consideravano l’abitante più potente e per questo dovevano inchinarsi al suo passaggio e manifestare esternamente il rispetto dovuto. Nakane sottolinea che la dipendenza emotiva che caratterizzava i rapporti dei subordinati con il padrone è rimasta tipica anche nei legami che intercorrono fra il capo di una azienda e i colletti bianchi di oggi. Quando nel Giappone moderno il membro di una famiglia inizia a lavorare per il proprietario di una fabbrica, esso cessa di essere emotivamente dipendente dal padre naturale e si comporta come se rispettare gli ordini del suo capo fosse primario anche rispetto alle volontà delle proprio padre (Nakane, 1992).Era la proprietà che rendeva importante il legame con i padri; senza un possedimento, in una successione che non aveva importanza economica e sociale, la relazione fra padri e figli non era istituzionalizzata. L’immagine ideale del padre doveva sovrapporsi a quella del possidente terriero, con un casato stabile economicamente. Anche oggi l’autorità del padre è molto influenzata dal suo ruolo di capo nel management (Nakane, 1967).

1.4.1 La figura materna
La figura della madre era la figura meno importante nel casato, perché essa poteva essere sostituita in un qualsiasi momento. La donna che divorziava non poteva portarsi via i figli e un uomo che faceva figli con più donne poteva affidarli alla moglie attuale. Per avere una posizione sicura una donna doveva meritarsi il ruolo della “padrona”. Era raro ma anche una donna, se dimostrava più abilità nel maneggiare il denaro e nel portare valore economico alla proprietà, poteva arrivare a conquistarsi il potere decisionale nel nucleo famigliare. Non c’erano regole precise a stabilire il suo ruolo, dipendeva molto dalla sua personalità e da suo marito. Era importante che dall’esterno lei non facesse mai mostra del controllo che deteneva sugli affari domestici con nessun tipo di atteggiamento che potesse pubblicamente oscurare la figura del maschio nel ruolo di controllo degli affari. Quando mancava il capo famiglia era lei che subentrava e da quel momento cessava di essere madre, moglie o sorella per diventare solo una “padrona”. Il primato di una donna poteva dipendere dai seguenti aspetti: il suo status nel casato, il grado del suo contributo economico, il grado in cui le differenze di status erano istituzionalizzate in quel casato, la situazione economica da cui proveniva, la sua capacità di relazionarsi con i membri, il suo carattere, i suoi costumi e la sua ideologia prevalente. Lei poteva essere madre o moglie ma se non era “padrona”, se non aveva la capacità e il potere di condizionare le azioni degli altri era soltanto una figura di secondaria importanza.In ogni villaggio vi era dunque un capo con queste caratteristiche: era scelto dalla comunità che ne riconosceva i meriti e le capacità, e aveva molti compiti: raccogliere le tasse, curare la manutenzione e costruzione delle opere pubbliche, sorvegliare la condotta generale dei membri. In virtù di questi meriti godeva del diritto di trattenere una percentuale dal versamento delle tasse per ogni abitante (Gatti, 1999).

1.5 Le credenze magiche e la visione del mondo taoista
Ci sono alcune credenza magiche che regolano il vissuto dei giapponesi condizionando anche il vivere lavorativo. Certe misteriose interruzioni negli incontri d’affari derivano dalla credenza che esistono giorni infausti per la pratica degli affari. In Giappone esistono tre calendari. Quello riconosciuto ufficialmente è coincidente con quello occidentale che si adotta per le attività della vita moderna. Poi esistono altri due calendari che, anche se non sono riconosciuti a livello ufficiale, servono per indicare nel tempo antiche scansioni e ricorrenze. Uno è il calendario lunare solare che regola le attività agricole nelle campagne e l’altro adatta le date del calendario solare moderno ritardate di un mese per alcune ricorrenze tradizionali del ciclo annuale.”Il ciclo più seguito è quello dei sei giorni, che si presentano in successione fissa: sensho, tomobiki, senpu, butsumetsu, taian e shakku” (Marazzi, 1990, p.75). In alcune parti dell’anno questi giorni si susseguono, in altre sono saltati, ma la curiosità interessante è fra di essi ci sono giorni fausti e giorni infausti. Ad esempio fra tutti il giorno più fausto è taian ed è proprio in questo momento dell’anno che si preferisce sposarsi, oppure iniziare una attività economica o commerciale, inaugurare un negozio, o intraprendere un viaggio d’affari. I giorni ritenuti più sfortunati sono invece butsumetsu e shakku. Tomobiki è considerato un giorno che i ripeterà un’altra volta in cui sarebbe negativo celebrare un funerale. Sensho è il giorno più opportuno per risolvere dei conflitti e Senpu è l’opposto di sensho ed è infausto per gli affari. Questi appena accennati sono i sei giorni del rokuyo e sono indicati nelle agende degli uomini d’affari per regolare gli appuntamenti di lavoro nei giorni più favorevoli, anche se molti non ammettono esplicitamente di badare a queste “magiche” scansioni del tempo . Un altro ciclo che influenza i comportamenti dei giapponesi è la credenza nei dodici animali zodiacali che combinati a cinque elementi naturali formano un ciclo sessuagenale che dà indicazioni sul carattere e sul futuro delle persone. Chi è nato nell’anno del topo si pensa sarà un grande lavoratore, così come chi è nato sotto il segno del toro. Più sfortunate sono le donne che sono nate sotto il segno della tigre perché si prevede che scapperanno di casa con la stessa velocità dell’animale. Queste credenze nel passato hanno condizionato molto il vissuto degli individui. E’ accaduto infatti che i genitori di donne nate sotto il segno della tigre abbiano fatto fatica a sposare le proprie figlie. Per questo è stato statisticamente provato che in certi periodi ci sono state delle brusche cadute di nascite proprio a causa del timore di generare un figlia che facesse fatica a trovare marito. Per i maschi è il contrario: l’anno della tigre porta loro fortuna in quanto li rende persone attive e aggressive, doti molto richieste soprattutto nel mondo degli affari. Il cavallo e il fuoco portano sfortuna alle donne che se nate sotto quel segno diventano in grado di uccidere soprattutto il loro marito. Uomini e donne del coniglio sono buoni ma deboli, invece chi nasce sotto il segno del drago è molto fortunato ma corre il rischio di crollare dopo un obiettivo raggiunto. Esistono altri segni che portano altre caratteristiche reputate stabili nella personalità di chi li possiede: la pecora, gentile ma debole, il cavallo, nobile ma di temperamento instabile, il gallo, volubile ma di gran cuore, il cinghiale, attivo ma testardo.Nessuno dice di credere a questi segni e si ritiene che queste siano antiche credenze oramai decadute e passate di origine cinese e taoista, però “questi sono tra gli elementi centrali che hanno organizzato la visione del mondo propria della cultura di cui sono portatori i giapponesi di oggi” (Marazzi, 1990, p.78).Sempre di derivazione taoista è la concezione che l’uomo attraversi a età fissate, nel corso della sua vita, anni pericolosi chiamati yakudoshi. Per gli uomini gli anni più pericolosi sono i 25, 42 e 61, mentre per le donne 19, 33 e 37 (oppure 49). Poi ci sono altri anni considerati portatori di sfortuna di minore entità. Per rendere improbabile l’influsso negativo di questi giorni sul vissuto dell’individuo sono previsti speciali riti esorcisti, di purificazione e di richiamo di forze positive che vengono fatti a capodanno. La purificazione viene fatta in un tempio shintoista e un modo per affrontarla è ad esempio quello di passare tre volte il bastone rituale da cui pendono strisce di carta bianca, gohei, sulla testa delle persone. Molti proprio per evitare che accadano disastri nella loro vita, preferiscono evitare di iniziare una qualche attività lavorativa importante negli anni sfortunati (Marazzi, 1990).

1.6 I riti nella società moderna giapponese: la purificazione
Come sopra accennato la purificazione è importante e il momento per vivere i riti connessi ad essa è il capodanno. Mentre per i buddisti il capodanno è espressione della loro visione ciclica del tempo, per i giapponesi è un momento di rinnovamento concreto da vivere individualmente, nel senso che non ci sono momenti collettivi, questo per quanto riguarda la tradizione shintoista.Per giungere preparati al momento della fine dell’anno, si cerca di estinguere i debiti, di portare a conclusione le attività che si sono intraprese durante l’anno e si va singolarmente a visitare un tempio sacro con il migliore abito. Marazzi scrive che vi è un tempio shintoista a Kyoto dove a capodanno viene distribuito il fuoco per accendere il focolare che dovrà estendere idealmente la sua energia purificatrice per tutto l’anno. Così proprio l’ultimo giorno dell’anno si trovano persone che camminano normalmente per la strada con in mano uno stoppino ardente che sono di ritorno da un tempio shintoista e che tornano alle loro case cercando di non far spegnere la fiamma, ravviandola ogni tanto.Un’altra usanza è di mettere sopra alle porte delle case una fune avvolta verso sinistra, come segno di purificazione, più grossa al centro. Questa shimenawa può essere decorata con altri simboli come l’aragosta, che è portatrice di una lunga vita.La vigilia dello scadere dell’anno si chiama komori e si festeggia, dove possibile farlo, accendendo all’esterno dell’abitazione un fuoco che simbolicamente dovrebbe portare lo spirito dell’anno. I primi giorni dell’anno nuovo vengono impiegati per far visita alle tombe dei parenti defunti.

Alla fine dei riti, tutto viene portato nell’area esterna di un tempio, dove successivamente verrà bruciato per cancellare e purificare tutto ciò che è già stato vissuto.

Questi giorni sono attesi con molto piacere, dai giapponesi, in quanto sono giorni di distacco dalle normali occupazioni lavorative quotidiane. Per almeno cinque giorni i lavoratori si possono dedicare soltanto alle visite, alle attività di rito e famigliari sollevandosi dalle fatiche e dagli impegni sociali (Marazzi, 1990).

1.6.2 Hanami
Tra Marzo e Aprile ricorre il festeggiamento dell’hanami, ossia la “visita dei fiori”. Non è un momento religioso ma viene considerato un rito annuale perché in quella sera i parchi cittadini diventano gremiti di impiegati che prima di fare ritorno a casa distendono sotto ad alberi fioriti una coperta e cantando stappano una bottiglia di birra o bevono il sakè (5) (Marazzi, 1990).

1.6.3 Il rito del matrimonio
Il matrimonio è considerato un rito obbligatorio e solitamente la scelta della sposa o dello sposo è a carico di un intermediario, dal momento che l’ingresso del nuovo individuo nella famiglia diventerà socialmente determinante perché indica l’unione di due gruppi parentali. Si ritiene che circa la metà dei matrimoni oggi siano combinati attraverso intermediari che possono essere anche i capi nel mondo del lavoro. L’intermediario ha un enorme valore, all’interno del rapporto dei due futuri coniugi. E’ colui che ha creato l’occasione per farli incontrare, colui che nel fidanzamento porta i doni nella casa della donna da parte del pretendente, durante il pranzo illustra le virtù degli sposi in una breve biografia, dicendo ad esempio quanto sono apprezzati dalle persone e svolge la funzione di consulente, qualora sorgano problemi di rapporto durante la convivenza. Dopo il rito nuziale segue un ricevimento, a cui sono invitati parenti e colleghi di lavoro. Gli invitati sono così numerosi che non esiste una casa in grado di ospitarli per il pranzo, per questo esistono delle vere e proprie “case per matrimoni” che forniscono ogni servizio comprendendo anche spazi per i riti scintoisti o buddisti. Durante il pranzo le persone più autorevoli prendono parola: il capoufficio parla delle qualità lavorative dei due, il capo dell’azienda parla delle eventuali possibilità di carriera che hanno nel futuro e così via. Il rito matrimoniale è un momento in cui entrano in gioco fattori come il prestigio sociale, le conoscenze altolocate, la posizione economica (Marazzi, 1990). Oggi lo shinto e il confucianesimo risentono della crisi dei valori tradizionali. Oggi si assiste ad una crisi della religione, nel senso che sebbene molti si dichiarino contemporaneamente fedeli a religioni diverse, non si può dire che il Giappone sia un paese religioso perché ci sono troppe tradizioni che hanno identità diverse e esistono le une accanto alle altre (Brocchieri & Nishikawa, 1999). Oltre al buddismo e allo shintoismo, si è diffusa anche la religione cristiana (il primo contatto avvenne a cavallo fra il 1500 e il 1600). Essa si è affermata debolmente perché i giapponesi trovano intolleranti certi principi cristiani come ad esempio la formula “Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio fuori di me”. Inoltre i Giapponesi sono imbarazzati di fronte al carattere che sentono troppo paterno, nel senso di severo e duro, della concezione occidentale di divinità. La loro tradizione della religione locale è percepita come materna, uterina, consolatoria e protettiva e rifiutano “un dio che atterra più di quanto non susciti e che affanna più di quanto non consoli” (Brocchieri & Nishikawa, 1999a, p.239).

Gigliola Arvoti

NOTE
1. L’età Meiji iniziò nel 1867 e terminò nel 1912. In questa età venne superata l’antica struttura feudale e nacque il Giappone moderno.

2. Il vissuto spirituale dei giapponesi si delinea nel rapporto fra gli uomini e i kami. “Via dei kami” è la traduzione letterale di shinto che è una parola formata da due ideogrammi: shin (o ‘kami’) e to (o ‘do’ cioè “la via” che può intendersi come il percorso spirituale). I kami sono tutti gli spiriti degli antenati che hanno preso collocazione nello spazio e nel tempo, scegliendosi luoghi o rifugi particolari costruiti dall’uomo. Ci sono kami fondatori che hanno una loro identità specifica e un vasto numero di kami che pervade il cosmo, la terra, il cielo, il mare. La definizione data nell’epoca Meiji era questa: “La parola kami si riferisce, nella sua accezione più ampia, a tutti gli esseri divini del cielo e della terra che compaiono nella tradizione classica…sono spiriti che risiedono e sono venerati negli altari. In linea di principio tutti gli esseri umani, gli uccelli, gli animali, gli alberi e le piante, le montagne e gli oceani, possono essere kami” (Marazzi, 1990, p.171). Seguire la via dei kami significa essere devoti agli antenati e alle tradizioni di cui essi sono stati i depositari. I kami non sono entità trascendenti che sono comparsi prima della formazione del mondo, ma sono essi stessi parti del cielo e della terra, attraverso i quali la vita si è generata (Marazzi, 1990). Questi miti hanno subito una manipolazione molto profonda nell’epoca Meiji quando venne creato lo shintoismo di stato che voleva riaffermare la centralità dell’imperatore che era stata offuscata dalla figura dello shogun, capo politico e militare. L’imperatore doveva essere considerato divino e a causa di queste connessioni con la struttura politica del potere, la mitologia ufficiale divenne quasi imposta nel legame fra società e spiritualità. Si può sostenere che la ricerca del mito e del legame con uomo sia soprattutto dettato dalla paura e dall’esigenza di tenere sotto controllo il divino. I vincoli stabiliti con gli antenati e con gli spiriti protettori con l’apporto di offerte e l’atto delle visite agli altari è una rassicurazione contro poteri molto misteriosi e capaci di influire sopra il destino degli esseri umani. Nello shintoismo non c’è una separazione fra l’aldilà e il mondo degli uomini. Dagli spiriti, che animano la terra, gli uomini traggono energia e vita e l’offerta diventa un rito di gratitudine. Ma quello che viene sentito, nel rapporto con la spiritualità, è il bisogno di trarre sicurezza nella vita terrena, la felicità ultraterrena non è così importante come quella terrena (Marazzi, 1990).

3.
Lo shogunato dei Tokugawa iniziò nel 1603 e finì nel 1867.

4.
I samurai erano cavalieri e uomini d’armi della cavalleria giapponese che dominavano la società politica, detenevano rango, terre e cariche. Uno di essi, detto shogun appartenente alla famiglia Tokugawa che aveva tenuto il potere fin dal 1603, esercitava la suprema autorità amministrativa. Lo shogun aveva un potere che si estendeva ad ogni uomo, ad ogni luogo. A Kyoto egli era rappresentato da un governatore, scelto nella cerchia dei suoi parenti o vassalli. I nobili di corte gli dovevano prestare uno speciale giuramento di fedeltà e attraverso di loro egli controllava la nomina di tutti i più importanti funzionari della corte (Beatsley, 1975)

5. Il sakè è una bevanda alcolica, tipica del Giappone, ottenuta dalla fermentazione del riso. Per gentile concessione del sito “L’Archivio”



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