Aikido libero e consapevole

 

“1) GENERALITA’: I RISCHI NEL DARE PER SCONTATO CIO’ CHE NON LO E’
In base a diverse esperienze ho avuto conferma che per ottenere buoni risultati riguardo la capacità di acquisire delle buone risposte difensive in base ad attacchi ricevuti, allenarsi esclusivamente sulla costruzione e perfezionamento senza fine delle tecniche (o meglio, delle forme) porti solo a risultati parziali, e comunque sempre trincerati all’interno di un codice (o kata) fisso.

Se, per fare un esempio, mi alleno per diventare portiere di una squadra, non migliorerò realmente se il calciatore che sta per tirare il rigore mi comunicherà sempre il lato in cui calcerà il pallone.
Nel momento in cui abbiamo bisogno di giungere ad un risultato, non possiamo dare per implicito e scontato il fatto che lo raggiungeremo per vie alternative, dobbiamo allenarci per puntare dritti allo scopo.
Se è vero che l’aikido è un’arte marziale, è anche vero che dovrebbe essere in grado di costruire un corpo e una mente che riescano ad adattarsi alle situazioni, senza mai perdere di vista i suoi principi guida.
In un “esperimento” passato, è stato chiesto a praticanti/insegnanti di diverse scuole con ormai una grande esperienza alle spalle e un altrettanto grado alto, di cercare di adattarsi su attacchi di vario genere, quindi “a sorpresa” senza necessariamente costruire una tecnica, ma cercando anche solo dei contatti utili in modo da uscirne integri. A questi soggetti sono stati confrontati i risultati di altri praticanti molto meno esperti che dovevano riuscire nello stesso compito.
Considerate una differenza tra cinture nere del primo caso con una esperienza di circa 15-25 anni di pratica alle spalle, e praticanti del secondo caso con una esperienza di 2-3 anni, quindi un abisso.

I risultati sono stati disastrosi con i più esperti, mentre molto soddisfacenti con i ragazzi meno esperti.
Come mai?
Perché i ragazzi meno esperti presentavano una mente più libera, si sono allenati maggiormente sugli aspetti psico-motori che riguardando la capacità di adattarsi agli attacchi (spostamento dei piedi, gestione del peso, mantenere un contatto, non pensare alla tecnica, non aver fretta di buttare giù l’uke, non guardare il braccio dell’attaccante, ecc..) , e meno su tutti quei particolari e dettagli delle tecniche che creano un’infinità di altre domande, alla ricerca disperate di risposte che distolgono l’obiettivo principale in una situazione di pericolo, ovvero la capacità di adattarsi in ogni situazione.
I più esperti non riuscivano non solo a muoversi adeguatamente, ma forzavano tecniche che riuscivano solo tramite complicità di uke, proprio perché negli anni si sono formati mediante il seguente schema:
1-attacco =1 tecnica
come se questa fosse una formula matematica che per forza di cose debba riuscire sempre.
Non è affatto così, e bisogna fare attenzione proprio a questi aspetti che si danno per scontati, e con il tempo sono proprio la causa che vede tanta gente realmente motivata andare via dai corsi di aikido per insoddisfazione e confusione.
Riempire il programma di tecniche infinite e di varianti, finirà solo con il riempire la testa di concetti, e rendere il corpo sempre più impedito e meno naturale.
L’aikido rischia così di diventare troppo superficiale, mascherato da una complessità che in realtà cerca solo di distogliere l’attenzione a tutti quei quesiti realmente importanti, ma a cui spesso si risponde “ci vogliono tanti anni, fai fai e poi capirai, non è il momento per queste domande, ecc…”
Essere obiettivi significa porsi delle domande fondamentali, ma farlo è rischioso. Bisogna nascondersi, e bisogna fingere che conosciamo le domande fondamentali. Bisogna nascondersi dietro le risposte di qualcun altro.
Più si ci avvicina a ciò che è primario, più ci si spaventa. Se hai paura, ricominci a porre domande secondarie.
La verità è che, attraverso sperimentazioni dal risultato comunque prevedibile, soggetti che praticano da un periodo relativamente breve, si muovono riflettendo una libertà mentale che soggetti più graduati non hanno.

Se qualcuno nel passato non avesse dubitato di ciò che si dava per scontato, oggi accenderemmo ancora il fuoco sfregando le pietre.

2) APPLICAZIONE O COREOGRAFIA?
Partiamo da un principio: applicare significa tirare fuori le proprie conoscenze in situazioni non programmate, riuscire a riportare l’ordine nel disordine. E’ fondamentale, trattandosi di un’arte marziale, evidenziare sempre la fase in cui vengono messi da parte i codici e le regole acquisite, per poi “distruggerle” passando oltre, riuscendo a tirare fuori la propria personalità/conoscenza in situazioni in cui non viene stabilito nulla, a partire dall’attacco che si riceve.

In questa prospettiva, se viene stabilito sempre l’attacco o/e l’atteggiamento di uke che si riceverà a priori, il corpo e la mente non troveranno nessuna vera ragione per migliorare.
Il corpo e la mente si adattano (omeostasi), e questo adattamento produce una stasi, se non un peggioramento.
Ci vengono in aiuto a questo proposito teorie e sperimentazioni varie, come i principi di adattamento della Psicomotricità, l’abitudine, lo stress imposto, Stressor e problem solving o la sindrome generale di adattamento di Selye.
Ne converrete con me che, in questa prospettiva, il praticante esperto non è colui che ha dietro di se trenta o quarant’anni di pratica, ma colui che riesce anche in molto meno tempo a concretizzare le proprie conoscenze che vengono fuori in tutte le situazioni (capacità di adattarsi).
Sapete bene che quantità non significa qualità.

Ciò che rende attuabile la tecnica, è il momento, la situazione, la circostanza. Non esiste la tecnica giusta, esiste la tecnica giusta al momento giusto. Allenarsi quindi soprattutto su questi momenti, sulle emozioni che entrano in gioco, sull’abbandono della rigidità fisica e mentale, sulla comprensione del concetto di guardia, di gestione del peso, sulla sensibilità dei contatti.
Chiedetevi sempre quali sono gli obiettivi che cercate, e domandatevi se il vostro allenamento si adegua alla vostra ricerca.
Possiamo mentire con altri, ma non possiamo mentire con noi stessi. Quando avvertiamo un campanello di allarme dentro di noi, non dovremmo sopprimerlo, bensì capirne la sua natura e cercare di trovare delle risposte.
Ricordate anche che un buon insegnante vi darà sempre delle risposte, e non avrà bisogno di fare giri di parole o riempirvi la testa di concetti mistici o astratti. Quando voi mettete piede sul tatami, state già dando il vostro tempo, la vostra fiducia e i vostri soldi all’insegnante. Il minimo che lui possa fare è darvi delle risposte immediate con sincerità.
La pratica e il vostro impegno faranno il resto.
Chiedetevi effettivamente se dopo la conoscenza formale sviscerata nei minimi particolari non ci sia effettivamente dell’altro, e se questa conoscenza non risulti essere addirittura controproducente a causa di un eccessivo accumulo di dati che riempirà la vostra memoria, proprio come un computer troppo pieno di programmi rischia di rallentare e di bloccarsi.
In questo caso noterete che con una bella formattazione con successiva istallazione di solo ciò che vi serve, permetterà al vostro computer di tornare ad essere fluido ed efficiente.
La mente umana funziona in maniera molto simile, vediamo come.

Aikido libero e consapevole

3) ELABORAZIONE DELLE INFORMAZIONI E ADATTAMENTO
L’elaborazione delle informazioni, detta in maniera molto semplicistica, ci dice che tanto più la quantità di informazioni a livello di apprendimento motorio sarà alta (movimenti, forme o tecniche, varianti, ecc..) tanto più il nostro cervello faticherà a memorizzare tutte queste informazioni, e di conseguenza riportarle con spontaneità su situazioni non programmate e prestabilite a causa dell’eccessiva quantità di conoscenze. Ad esempio cinque o sei modi differenti di costruire kotegaeshi da shomenuchi.

Pensiamo al maggior numero di informazioni da elaborare in una partita di tennis giocata all’aperto rispetto ad una giocata al chiuso: posizione del sole, umidità, velocità e direzione del vento ecc.;occorre accedere al sistema di elaborazione delle informazioni e impiegare in misura più o meno consistente una porzione di risorse che vengono così distolte da altre attività, come la preparazione e l’esecuzione del movimento.
Ma cosa avviene nell’intervallo di tempo tra la presentazione dello stimolo sensoriale (input, nel nostro caso un attacco) e la prima reazione osservabile del movimento di risposta?

Il tempo di reazione è composto da:

1) fase centrale-cognitiva

2) fase periferica-motoria.

Nella prima fase hanno luogo i processi di elaborazione – codifica dell’informazione
sensoriale in entrata, che nel nostro esempio è uno stimolo visivo quale il movimento di uke, fino allo stadio di selezione della risposta da effettuare (difesa).

Nella seconda fase ha luogo l’attività muscolare (tempo di reazione motorio).

Solitamente la componente periferico-motoria del tempo di reazione può essere stimata intorno ai 40/60 millesimi di secondo.
Tanto più elementari sono i processi cognitivi coinvolti nell’elaborazione dello stimolo e nella scelta della risposta da effettuare tanto più veloci dovranno essere i tempi di reazione di un soggetto,così come tanto più semplice è il movimento di risposta richiesto, tanto più rapido dovrà essere il tempo di movimento necessario alla sua esecuzione. Ma se la reazione sarà complessa e articolata, e soprattutto non equilibrata rispetto ai tempi che serviranno ad uke per colpirci, non avremo il tempo di costruire una adeguata difesa.
Il rischio di entrare in una routine è dietro l’angolo, vediamo come e perché.

4)LA TRAPPOLA DELL’ABITUDINE
Alcuni maestri illuminati sostengono che la ripetizione di qualcosa che sia monotono può aiutare il sonno, sia da un punto di vista fisico che spirituale.
Sempre loro, per esempio, vanno contro l’idea di preghiera come ripetizione verbale o motoria meccanica fine a se stessa, provocando una sorta di assuefazione inconsapevole.
Gli psicologi suggeriscono che se non riesci a dormire, bisogna concentrarsi sull’orologio: tic-toc,tic-toc .. ma cosa c’entra tutto questo con l’argomento?
C’entra nella misura in cui l’abitudine e la ripetizione di certi schemi diventa morbosa, proprio come una droga.
Per abitudine si intende l’acquisizione di schemi comportamentali appresi mediante le ripetute esperienze. Il nostro corpo è regolato dall’omeostasi, ovvero la ricerca costante e continua di equilibrio, anche al variare delle condizioni esterne.
L’abitudine, dunque, è qualcosa che si insidia senza farlo sempre con chiarezza, e delle volte ci porta anche a diventare delle macchine che svolgono le loro funzioni inconsapevolmente.
In aikido il rischio di cadere nella routine è sempre dietro l’angolo: una volta apprese le tecniche fondamentali (anche se ho maturato l’idea che non esistono tecniche fondamentali, bensì principi fondamentali) i movimenti e le posizioni basilari, spesso e volentieri tutto viene ripetuto costantemente, ricercando i continui miglioramenti su dettagli a cui viene data una enorme importanza, ma non è detto che ne abbiano. Le uniche variazione, nella maggioranza dei casi, riguardano le differenze di approcci nelle forme tra un insegnante e l’altro, ma sempre trincerate nello studio dei kata (es. katatedori – nikkyo omote/ura, per poi passare a katatedori – sankyo omote/ura)
Una volta che queste abitudini verranno incorporate sarà molto difficile liberarsene.
Se l’obiettivo del praticante è quello di migliorare nella disciplina, deve cercare di star lontano dall’abitudine.
Prendiamo come esempio due body builder. Il primo che, per sua scelta, decide di assestarsi al livello di massa muscolare “media”, e il secondo che vuole aumentare di massa costantemente.
Probabilmente il primo seguirà un allenamento costante e schematico, seguendo le stesse ripetizioni e variando di poco il peso, giusto per non addormentarsi in palestra, l’altro invece sarà costretto non ad aumentare le ripetizioni o le sedute in palestra, bensì l’intensità degli esercizi.
E’ solo e soltanto attraverso l’intensità che il secondo soggetto riuscirà ad aumentare la massa muscolare, mettendo in continuazione il corpo in condizioni di non-abitudine. Non esiste principio che definisce il più fai e più otterrai. Nella fisiologia muscolare il sovrallenamento porta ad una stasi e un peggioramento nelle proprie capacità di adattamento, proprio come nell’aikido della routine.
In entrambi i soggetti comunque, vi è una coerenza di lavoro con gli obiettivi che si sono preposti.
Lo stesso vale per l’aikido, e la variazione del metodo e del programma è solo una questione di obiettivi perché non sto parlando di mie opinioni, questo è bene chiarirlo.
Variando completamente il programma varia l’obiettivo. Non sempre penserete voi, se il mio obiettivo è quello di arrivare da Napoli a Roma posso arrivarci in vari modi, ma perché andare a piedi se posso prendere la macchina?
Migliorare significa avere il coraggio ed essere in grado di forzare il corpo e la mente a farlo, sempre in relazione agli obiettivi che ci si propone di raggiungere, di cui parlerò in seguito. Se mi avete seguito fin qui giungerete voi stessi alla conclusione che il ripetere per anni meccanicamente la forma, “perfezionando” i kata con i loro infiniti particolari (infiniti perché ogni insegnante troverà milioni di modi di smontare e rimontare come si fa per i lego per farvi giocare), imprigionando il corpo dentro la routine, porterà all’effetto contrario di quello desiderato.

Aikido libero e consapevole
5)LA LIBERTA’ ALL’INTERNO DELL’AZIONE ATTRAVERSO IL NON PENSIERO
Se siete imprigionati nello schema e nelle sue forme, la conseguenza è quella che cercherete, anche senza nessuna cattiva intenzione, di imprigionare il vostro compagno.
Se non si farà guidare nel modo giusto, la “colpa” sarà sua, e allora lo educherete e lo modellerete fin quando la vostra forma non diverrà anche la sua forma. Provate invece ad osservare cosa accade se si incontrano delle resistenze, e cercate di lasciare la sua risposta quanto più naturale e spontanea possibile. Invece di cambiare lui, cercate di cambiare voi.
Provate ad adattare il vostro Ikkyo alla posizione del compagno, piuttosto che il contrario. Mettete da parte i vostri schemi, e lasciate che i movimenti scorrano ascoltando il compagno piuttosto che ascoltando voi stessi.
Vi renderete conto che non esiste la forma Ikkyo, ma esiste il principio Ikkyo, perché la forma cambierà ad ogni nuovo incontro.
Educando, già da subito, il principiante alla logica e non alla forma, lo si allena a mantenere in ogni circostanza una mente libera (e quindi un corpo libero e rilassato) e non avrà bisogno di formarsi inizialmente su degli schemi per poi abbandonarli.
Mi è capitato spesso di avere difficoltà con questo approccio, poiché nonostante gli allievi compresero che lo schema in situazioni di pratica variabili e mutevoli non andava preso in considerazione, il loro corpo per abitudine agiva istintivamente verso lo schema, poiché l’abitudine li aveva in parte già imprigionati.
Veniva creata una frattura tra il corpo e la mente: il corpo voleva far qualcosa di spontaneo e naturale che la mente gli impediva … questa frattura non deve esistere. Per essere ancora più chiaro, alcuni di voi conoscono l’attacco katatori-menuchi e la tecnica shihonage. Spesso l’applicazione di questa tecnica dall’attacco appena descritto è presente in un programma di esame avanzato, ma vi rendete conto di quanto sia elaborata, macchinosa, improbabile e contorta? Chi si occupa di questi esami, pensa che tanto più sarà complessa ed elaborata una tecnica, tanto più il praticante potrà migliorare, quando invece è vero l’esatto contrario.
Se io devo insegnare a piantare un chiodo, e il mio allievo ha a disposizione un martello, non gli insegno a piantarlo con le mani solo per il gusto di complicargli la vita. Potrò dire lui “ma tu sarai l’unico al mondo che saprà piantare il chiodo con le mani”, e lui dovrà rispondermi “certo, l’unico stupido al mondo”.
Il principio profondamente sbagliato è incentrato sulla credenza ormai diffusa che per ogni attacco sia applicabile ogni tecnica. Gli attacchi, per loro natura, costruiscono delle traiettorie e delle intensità diverse. Una buona proposta potrebbe essere quella di lavorare solo sulle tecniche che meglio si adattano a questi attacchi, proprio come l’esempio del chiodo e del martello.
Volendo semplificare molto per ragioni descrittive, ad esempio yokomenuchi, descrivendo una linea rotatoria interna, meglio si sposa con shihonage. Allora perché intestardirsi, per esempio, nel voler apprendere e costruire un elaborato nikkyo ura su yokomenuchi con i suoi infiniti particolari? Pensate che vi dia delle qualità? Affatto, ve le toglie! Vi toglie la qualità di semplificare! Il vostro compagno attaccherà e impiegherà circa due secondi, voi dovrete impegnarne circa il triplo per la tecnica, e questo quando conoscete l’attacco, figurativi quando non lo conoscete.
Se il vostro compagno vi attaccherà all’improvviso con yokomenuchi, pensate sia possibile elaborare nikkyo ura? Se l’attacco ha la velocità di sei secondi, e l’intensità della carezza della nonna, sicuramente! Ma questa è un’altra storia.
E se l’attacco non fosse yokomenuchi classico, o non conoscete da quale lato proviene e venite colti totalmente alla sprovvista, cosa potrebbe accadere se vi siete formati solo su dei kata sviscerati senza fine? Lascio a voi le conclusioni, e se non mi credete potete provare anche con qualche praticante di altre discipline.
In allenamento, provate a fare questo piccolo esperimento:
Quando venite attaccati, a cosa pensate?
Siete già avanti con la mente? Se pensate alla tecnica che farete la vostra mente è ancorata nella forma. Ciò significa che, non appena verrete sorpresi, vi troverete in grande difficoltà. Se siete sinceri ed onesti con voi stessi, qualcosa nella vostra pratica dovrebbe cambiare. Se, diversamente, accettate il fatto che volete migliorare al massimo sulla forma, allora è una scelta vostra, è solo una questione di obiettivi e di massima onestà.

Questo punto è fondamentale, seguitemi attentamente, perché segna un limite tra l’opinione e il dato di fatto.

La sincerità di cui parlo deve derivare dal fatto che non dovreste far credere ai vostri allievi/compagni di poter applicare quelle forme in ogni circostanza, e se ne siete realmente convinti fatevi attaccare con convinzione e senza chiedere l’attacco che volete ricevere a priori… significherebbe barare. Se mostrate una cosa, dovete anche saperla fare… e saperla fare significa tirarla fuori quando capita, e non quando create voi la situazione. Per realizzare questi risultati serve un tipo di allenamento che vi prepari da subito in questo senso, non aspettate di diventare 4° Dan per iniziare a pensarci come spesso dicono i vostri insegnanti per tenervi buoni, perché potrebbe essere poi più complicato a causa delle teorie già descritte.
Ottimizzate il vostro tempo!
Cercheranno di convincervi che non è il momento, che volete tutto subito, che non sapete aspettare, ma ricordate che non si tratta di giungere ad un obiettivo per vie alterne, ma di lavorare per quell’obiettivo fin da adesso!
Il mio obiettivo è, ad esempio, quello di riuscire ad adattarmi in base a situazioni non sempre programmate, con sempre crescente richiesta di risposta adattiva attraverso una domanda che costringa ad un nuovo ri-adattamento, cercando non di partire dalla forma schematica per giungere alla sostanza, ma adattare le capacità acquisite (coordinative, reattive, di equilibrio,ecc.) per trovare la propria forma che sarà sempre nuova ad ogni nuovo incontro/situazione. Se il mio obiettivo è quello di far giungere me e i miei allievi a queste qualità, devo per forza di cose programmare una didattica opportuna.
Questo permette di praticare con la mente libera e senza condizionamenti, adattando il soggetto allo schema e non il contrario.
Si fanno errori solo quando ci si prepara prima.
Vivere nel presente significa riuscire ad adattarsi sul momento, poiché risulta assurdo avere la mente nel futuro quando qualcosa sta avvenendo nel presente. Se la vostra mente è nel futuro, quando qualcosa cambia nel presente verrete sorpresi.
Lo stesso vale per la danza, che non assolutamente sinonimo di coreografia.
Coreografia non è una parola negativa, nella danza attraverso le coreografie si imparano tantissime cose utili, ad esempio ci si prepara per il saggio di fine anno in maniera praticamente perfetta, ma resta pur sempre una coreografia. Non sto dicendo che non vada bene, basta solo dare il nome giusto a ciò che si fa a chiarire gli obiettivi che si intende raggiungere.

Ho conosciuto insegnanti di danza che, anziché lavorare per le coreografie, partivano dalla tecnica (sempre in senso globale attraverso l’acquisizione di più capacità) e poi mettevano le proprie allieve in condizioni di seguire qualsiasi ritmo e qualsiasi canzone.
Queste insegnanti avevano sempre poche allieve, perché la coreografia è attraente, affascinante, da vedersi spettacolare, ma quelle poche compresero cosa fosse davvero l’arte di esprimersi.

6)CONCLUSIONE: RISCOPRIRE LA SEMPLICITA’ TORNANDO ALLA FONTE
Ritrovate la semplicità.
La semplicità a chi è troppo preso da se, dalla sua esperienza, dal suo grado, dai suoi schemi, fa paura.
Dai maestri non si impara la verità, si impara solo la fiducia. Loro vi insegneranno ad essere liberi e aver fiducia non in loro, ma in voi stessi.
Non perdete altri anni della vostra vita a farvi rubare soldi e tempo seguendo per filo e per segno quell’infinito e maniacale perfezionismo formale degli insegnanti che genera in voi dipendenza. Non dico che un maestro debba essere per forza in mala fede, perché anche in buona fede voi potreste perdervi.
Vi sentirete sempre insoddisfatti, oppure crescerà in voi il desiderio di sapere tutte le forme e le variazioni, vi verranno dati piccoli contentini alla volta per tenervi ben stretti, non cadete in queste trappole perché è una pratica morta e stagnante, stancante, noiosa e fine a se stessa.
Questo intendeva il nostro fondatore, così come tanti altri maestri orientali quando dicevano di “lasciar cadere le tecniche, di abbandonarle, di non diventarne schiavi, di non trastullarsi con esse…”
Se ci riflettiamo è proprio ciò che spesso succede oggi in aikido come in altri campi, confondere il mezzo con il fine, aggiungo anche per un fattore prettamente speculativo.
Se, secondo voi, le tecniche sono il fine e ne siete convinti, vi faccio un altro esempio più inerente:
Prendiamo la tecnica iriminage: Essa insegna come sbilanciare l’uke agendo su dei punti di contatto precisi. Prendiamo poi, la tecnica ikkyo: essa insegna come sbilanciare l’uke, agendo su dei punti di contatto precisi. Prediamo poi, un kokyunage qualsiasi: esso insegna come sbilanciare l’uke, agendo su dei punti di contatto precisi.
Qual è il fine? Agire su dei punti di contatto precisi per sbilanciare l’uke
Quali sono i mezzi? Iriminage, ikkyo, kokyu nage ….
Se la tecnica-mezzo fosse in realtà il fine, l’aikido potrebbe benissimo basarsi solo su una tecnica, non ci sarebbe bisogno di conoscere le altre.
Pensateci.
Basterebbe imparare solo una forma, perfezionarla sempre, e il gioco è fatto, tanto funzionerà sempre e comunque!

Perché cercare la perfezione (che non esiste) di una forma, quindi, se ne abbiamo a disposizione tante altre che meglio si adattano ad una particolare situazione? Perché partire sempre dallo studio della tecnica e non da quello delle situazioni con le sue variabili, e peggio ancora se essa non funziona va migliorata fino allo sfinimento? Qual è il senso?
Lo stesso senso di andare in un luogo, ma poi rimanere chiusi dentro la macchina continuando ad accarezzare i propri bei sedili, o vantarsi di quanto sia liscio il volante. Serve solo a nascondersi dentro la bella macchina, per paura di uscire allo scoperto.
Non cercate le risposte alle domande degli altri, cercate le vostre domande.
I maestri, spesso, danno un falso problema, in modo da dover dare da fare per risolverlo, ma nessuno ci riuscirà mai, perché una vera malattia può scomparire, una malattia immaginaria no.
Lottando contro la falsa malattia, stanno difendendo quella vera. Occupati a combattere qualcosa di completamente inventato, danno il tempo alla malattia vera di crescere ed espandersi. Da questo si spiega la sensazione di trovarsi sempre al punto di partenza, di sentirsi sempre mentalmente stanchi con tutte quelle forme di una tecnica, varianti, soluzioni e schemi.
E’ arrivato il momento di svegliarsi.

 

Buona e libera pratica a tutti.

Gabriele Pintaudi



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