Il Ki nell’Aikido

Le motivazioni all’apprendimento dell’aikido sono diverse: il desiderio di diventare più forti, il bisogno di difendersi, la voglia di praticare uno sport, eccetera. Nessuno di questi è stato il mio caso, l’aikido fa parte delle mie ricerche sul ki. Letteralmente, l’ aikido è « la via di coordinamento al ki ». Mi sono interessato alla concezione del ki nell’aikido, ma il problema è molto complesso.Gli Europei s’interessano all’ aikido per la sua efficacia, per il potere che vogliono acquisire.  Ci s’interessa alla tecnica, all’acquisizione di riflessi pronti, al diploma che si consegue, alla posizione in seno all’organizzazione, alle prerogative che ne derivano.  Sono gli aspetti cartesiani del problema, ma il ki sfugge a ogni tentativo cartesiano di definizione. Ufficialmente il ki è inesistente. Per conto mio, vorrei dare un modesto contributo alla comprensione di questo concetto inafferrabile. Non scrivo per comporre un manuale per chi pratica l’aikido, ma per localizzare il problema nel contesto del pensiero occidentale. Non ha importanza che ci s’interessi o no alla pratica di quest’arte; il caso dell’aikido merita di essere studiato non fosse altro che per la visione nuova che può dare alle nostre idee. Molte persone sono venute da me per chiedermi indicazioni sull’aikido: « È efficace ? ». Sceglierebbero nello stesso modo un’arma da fuoco o le serrature di sicurezza. Hanno paura di essere attaccati, di morire e di vivere. Hanno fretta di trovare un qualunque mezzo che permetta loro, dopo qualche lezione, di entrare in possesso di un potere straordinario. Non ho accettato nessuno di questi personaggi. Che illusione! Di efficacia si può parlare al livello di Ueshiba, non al mio. Gli Occidentali credono che l’apprendimento consista nel sviluppare determinati riflessi. Certo, la loro acquisizione può facilitare l’organizzazione del lavoro: diversamente bisognerebbe ricominciare tutte le volte dai particolari più insignificanti. Ma il riflesso che resta solo un riflesso non è nulla. È un comportamento condizionato, un’abitudine é niente di più. Nel movimento rigeneratore ho visto questo tipo di riflessi: ogni volta si ripete esattamente lo stesso movimento, sempre della stessa identica durata. Non esiste un’evoluzione in profondità. Ricordo una storia che ci raccontava un professore di liceo. Uno judoka, terzo dan, si trova in un locale notturno. Scoppia una lite tra lui e un tipaccio. Lo judoka, ben padrone dei suoi riflessi, gli dà un hanegoshi, tirando verso di sé le braccia dell’avversario, che però estrae un coltello e lo punta verso lo judoka. A causa dello stesso gesto che gli avrebbe consentito di proiettare in aria l’avversario, lo judoka riceve il coltello nel ventre. Se non avesse avuto quel riflesso, si sarebbe salvata la vita in cambio di qualche colpo e di qualche schiaffo. A volte vengono da me alcune donne per chiedermi che devono fare se vengono aggredite, se vengono afferrate in un modo o nell’altro. Ho mostrato loro come svincolarsi, da una stretta.  Se avessi una certa astuzia commerciale potrei istituire un corso e pubblicizzarlo bene: « Donne difendetevi dagli aggressori. Metodo efficace ». Le ragazze reciterebbero il ruolo dell’aggressore e io dell’aggredito che bel mestiere! Ho scoperto presto la futilità di un insegnamento del genere. Ogni minimo gesto fa parte di un insieme più vasto e non si si può compiere nessuna azione senza la padronanza di tutto l’insieme. E’ impossibile distaccarne una parte in vista di un determinato scopo. L’idea che sia possibile eseguire in tutta calma una serie di movimenti programmati, come si potrebbe fare fare con le ricette di cucina, è ridicola e nefasta. Tornando al caso do al caso dell’aggressione, ho conosciuto due soluzioni diametralmente opposte: una improntata a un gran sangue freddo, l’altra alla forza dell’inconscio. La prima delle due donne parve cedere al seduttore, ma al momento in cui l’uomo cominciò a baciarla, lei gli morse la lingua con forza. Il giorno dopo il colpevole fu visto recarsi da un medico per farsi medicare la ferita. L’altra donna non ricorda neppure come si sono  svolte le vicende, come se in lei ci fosse stato uno spirito a condurre la cosa. Crede di ricordare un urlo di dolore. Quando era tornata in se, l’aggressore era scomparso. Il ki è questa forza inconscia. Certe donne dall’apparenza fragile riescono a sollevare un’automobile, se è necessario. Non c’è tecnica che ci metta in grado di arrivare a un livello simile. Certo, c’è chi s’interessa all’apprendimento di riflessi particolari o a una tecnica, a sviluppare una certa muscolatura: questo riguarda solo lui, sono aspetti che non m’interessano. Inoltre, se un certo riflesso si sviluppa al punto che chi l’ ha acquisito si mette per esempio in posizione di combattimento ogni volta che qualcuno gli passa vicino tenendo un martello, o ogni volta che lo chef alza la mano per grattarsi la testa, o che il macellaio prende il coltello per tagliare una bistecca, rischia ovviamente di essere considerato stravagante. Non andrà più neppure dal parrucchiere perché potrebbe trovarsi con il collo tagliato dal rasoio in men che non si dica. Vogliamo parlare di tecnica? Alcune persone sono repertori viventi della tecnica. Eseguono gesti come se tutto fosse stato programmato a puntino, ma manca loro qualcosa. Non hanno calore umano, sono robot. Negli ultimi anni, Ueshiba pareva non avere più alcuna nozione della tecnica. Compiva gesti quasi impercettibili e i suoi avversari finivano per terra. Pareva un bambino che si diverta con qualsiasi piccola cosa. Ogni tanto domandava: « E questo come si chiama? ». I discepoli rispondevano con un nome attinto dalla terminologia sapientemente costruita. « Ah sì? », rispondeva lui e continuava a divertirsi. Non era possibile trovare un nome per ognuno dei suoi gesti. Era libero e naturale come i venti e le onde del mare. Chiunque si sarebbe sentito sconcertato nel vedergli strutturare l’aikido. In Europa non esiste la nozione di ki ed è dunque inevitabile che l’aikido sia considerato uno sport da combattimento. E quando si parla di sport si parla di muscolatura. D’altronde è molto difficile dissuadere i giovani dal compiere esercizi muscolari. Per loro è una necessità fisiologica. Uno sport che non si accompagni a un dispendio di energie fisiche non è uno sport. L’aikido per me non è uno sport, appunto. Ueshiba ci ripeteva sempre: « L’aikido non è uno sport e neppure un’arte marziale ». Ci troviamo dunque, fin dall’inizio, a dialogare fra sordi. Per me il problema è quello di fare esercizi muscolari e d’altronde io non sono mai stato uno sportivo. L’ipertofria muscolare, come diceva Alexis Carrel, non è meno pericolosa dell’artofia viscerale. I miei bicipiti non si sono certo ingrossati da quando ho cominciato la mia attività in questo campo, e avevo quarantacinque anni. Come ogni cosa anche l’aikido si presta alle più svariate interpretazioni. Non posso certo rivendicare alla mia opinione,   una validità assoluta, posso solo dire quello che ho visto e constatato io stesso. Per esempio: qualche anno fa ho incontrato un giovane professore di aikido era uno sportivo, diplomato in educazione fisica. Soffriva ai reni e andava perdendo completamente la mobilità delle anche. Cercava di continuare almeno la ginnastica con le braccia, ma anche queste si andavano irrigidendo, tanto che non riusciva più a piegare i gomiti. È uno dei molti inconvenienti che ho riscontrato in chi si dedica alle arti marziali:l’irrigidimento del corpo, provocato da sforzi muscolari eccessivi. Un altro insegnante di arti marziali che veniva da me aveva parecchi problemi personali: la moglie era malata, lui soffriva ai reni e di vertigini continue. Prima di presentarsi agli allievi, doveva farsi impacchi freddi alla nuca per essere in grado d’insegnare. Era cosi agitato che mi commosse. « Mi dica, che cosa devo fare? » « Non sono abbastanza qualificato professionalmente per darle consigli, io mi occupo solo del movimento rigeneratore. Vuole venire a una seduta?». La sua risposta mi stupì. « Ora no, perché devo andare in vacanza ». Dunque, che cosa voleva esattamente? Un rimedio miracoloso? Una panacea dell’Estremo Oriente? Non ne conosco. Devo dormire. Devo svegliarmi. Devo lavorare. Devo andare in vacanza. Siamo schiacciati da quantità di devo ». Siamo intrappolati nell’ingranaggio sociale. Non si può sfuggirvi. Siamo anche circondati da rimedi miracolosi che non dobbiamo cercare molto lontano: un sonnifero, un eccitante, uno stimolante, un calmante, eccetera. Non sono un mercante di miracoli, anzi questi miracoli mi sembrano molto condizionanti per noi. Non voglio neppure che mi si chiedano consigli al riguardo: io vivo molto semplicemente. Quando parlo con persone così agitate ho l’impressione di offrire inutilmente un bicchiere d’acqua. Hanno sete, ma sono così nervose che non riescono ad afferrarlo e lasciano cadere l’acqua per terra. Riempio un altro bicchiere, ma nel frattempo arriva l’autobus e vedo le loro braccia agitarsi e allontanarsi. Come hanno fatto a ridursi cosi? Hanno quindici, vent’anni meno di me. Come saranno quando avranno sessant’anni? A quell’età si sono accumulate molte esperienze di vita e si deve essere in grado di fare qualcosa per i posteri. A quell’età, si dice, si è ormai decrepiti, ma questo mi fa riflettere. Ci sono giovani che vanno fieri delle loro ferite: una clavicola rotta, il menisco rovinato, eccetera. Li considerano altrettanti segni di virilità, decorazioni accordate al loro valore. Per conto mio, so di essere nato uomo e non sento particolare bisogno di mostrare la mia virilità agli altri ricorrendo a segni esteriori. Devo anche dire che sono stato iniziato all’aikido nell’età in cui si comincia a sentire che la vecchiaia si avvicina. La mia visione è totalmente diversa da quella di quei giovani combattenti. Quello che ho realmente constatato è stato il sollievo che ha provato il mio essere. L’aikido mi permette di riposare il cervello, non ho mai sofferto di reni e, anzi, l’agilità delle mie anche è aumentata. I giovani diranno: questo non basta, bisogna essere efficaci. Che cosa intendono per efficacia? Proiettare in strada due o tre aggressori e comportarsi come eroi del cinema? Non è certo questo l’unico pericolo della vita! Siamo forse sicuri che alla finestra della casa di fronte non ci sia qualcuno che ci spia puntando su di noi una carabina munita di mirino per cacciarci una pallottola in testa? È proprio così che sono morti un presidente degli Stati Uniti e un premio Nobel. Non abbiamo paura che ci caschi una tegola in testa o che ci possa schiacciare.una gru? Che tecnica dovremo applicare quando il nostro aereo si schianterà al suolo? Come ci difenderemo da microbi che non conosciamo?. E se stiamo dormendo, non ci capiterà niente? Bisogna premunirsi in modo efficace, mi risponderà qualcuno. Ma se la morte ha deciso di ghermirci, ci raggiungerà comunque, in qualunque posto ci troviamo. Un arabo, a Bagdad, incontra la morte che gli dice: « Verrò a prenderti domani sera ». Pieno di paura, lui salta a cavallo e va a Samarra. La morte si presenta all’ora stabilita e gli dice: « Sapevo che saresti venuto qui ».  Qualunque metodo o disciplina scegliamo, a mio parere essa non vale mente se finirà per demolire il terreno. Se invece mantenete normale il vostro terreno senza fare nulla di speciale, questa è certo un’ottima cosa. Che cos’è l’aikido? Non lo so. Dipende da quel che ci si aspetta. Che cos’è il cristianesimo? Se leggo i Vangeli capisco Gesù, ma non capisco niente di quanto è successo dopo: crociate, inquisizione, guerre di religione, eccetera. Ora ‘voglio parlare brevemente dell’efficacia di Ueshiba. Se alcuni suoi discepoli non arrivano allo stesso livello, non è certo colpa del suo aikido. Se Cristo vivesse nell’ Europa cristianizzata di oggi e si comportasse come si è comportato venti secoli fa, sarebbe arrestato come fautore di disordini. L’aikido strutturato non rispecchia la verità di Ueshiba. Molti occidentali conoscono già parecchie delle capacità di Ueshiba, ma ne racconterò qualcuna non per portare argomenti a favore dell’aikido, ma per dedurne qualche elemento essenziale che spieghi l’arte del maestro, In linea generale si può affermare che Ueshiba ha sfidato tutte le leggi sui fenomeni fisici a noi noti. Si spiega così la differenza d’opinioni tra coloro che credono a quei fatti senza poterli spiegare e coloro che li negano categoricamente. Com’è possibile, infatti, che un uomo di piccola statura proietti per aria uomini di venti o trenta centimetri più alti di lui, e non solo uno alla volta, ma molti in una volta sola? Ueshiba era imbattibile, da qualunque parte venisse attaccato, sia che l’attacco avvenisse quando lui era sveglio sia quando dormiva, apertamente o di sorpresa, a mani nude o con armi, comprese le pistole. A questi fatti si può credere o bisogna rifiutarli? Possiamo:

-rifiutare tutto ciò che non si spiega anche se esiste;
-accettare i fatti anche se non riusciamo a spiegarli;
-credere a tutto quello che non esiste.

La prima di queste posizioni, quella dei razionalisti incorreggibili, ha fautori non solo in Europa, ma anche in Giappone. Tacciare di soprannaturale o di mistico tutto ciò che non si spiega è una soluzione di comodo che non approda nulla. Ueshiba è stato uno degli uomini più naturali che io abbia conosciuto. Nogochi lo ha incontrato una volta in occasione di non so quale riunione. « Ueshiba è un uomo di valore », mi disse senza aggiungere nient’altro. E’ molto sicuro dei suoi giudizi. Può intuire in una frazione di secondo ciò che gli altri non arriverebbero a capire in trent’anni e, inoltre, non è certo un sostenitore di, coloro che cercano il soprannaturale a tutti i costi.

tratto da ” La scuola della respirazione”
di Itsuo Tsuda
Sugarco Editore



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