Il trono di sangue

Nel Giappone del XVI secolo, dilaniato dalle guerre civili, l’ascesa sanguinosa al potere del feudatario Washizu (T. Mifune), incalzato dalla moglie Asaji (I. Yamada). Più che una trasposizione, è un libero adattamento di Macbeth (1605-06) in cui, sostituendo la poesia delle parole di Shakespeare con quella dell’azione, A. Kurosawa fa paradossalmente il più originale e inventivo e comunque il meno parlato film scespiriano della storia del cinema. L’azione è condensata in tre luoghi: il Forte Nord, il Castello e la Foresta; le tre streghe sostituite con una Parca; eliminati alcuni personaggi di contorno; invenzioni visive al posto di dialoghi e monologhi. La tragedia del “beccaio morto e della sua demoniaca regina” diventa un tumultuoso affresco in movimento, corrusco di tempeste, convulso di galoppate, ricco di figure ieratiche che si muovono a ritmo lento di balletto ipnotico e di attori che recitano secondo i moduli stilizzati del teatro No. “Ho dimenticato Shakespeare e ho girato il film come se fosse una storia del mio paese” (A. Kurosawa). Due straordinari protagonisti, e alcuni momenti di grande cinema. Il titolo originale significa “Il castello della ragnatela”.
Il teatro shakesperiano è la naturale conseguenza delle moralità e dei misteri medioevali. Ovvia considerazione per una realtà culturale, come quella inglese, che non ha conosciuto se non per riflesso i fasti luminosi del Rinascimento e non si è persa nelle elucubrazioni teoriche dell’Umanesimo.
La riscoperta delle Unità aristoteliche, che sul continente è la bandiera sventolata in battaglia dalle Accademie blasonate di un teatro tutto di testa (e di testo), arriva a Londra solo come un’eco lontana che affascina autori minori come Ben Jonson che scrivono più per le maschere che non per gli uomini. Le trovate barocche per un teatro di scenografia non interessano a compagnie che hanno da poco smesso di recitare sui sagrati delle Chiese e si sono chiusi in teatri che, a livello architettonico, sono giusto una replica di quelle piazze, ma al chiuso.
Lo spettacolo è la parola d’ordine: il senso dell’organizzazione scenica, la capacità di produrre azione ed emozione. Laddove la mancanza di fondali e costumi rischia di diventare un handicap (può succedere nei drammi storici, ma anche nelle favole mitologiche) interviene la parola elaborata in versi e melodie a riempire i buchi, a svegliare la fantasia dello spettatore costringendolo ad immaginare sullo spazio neutro dei fondali neri.
L’Inghilterra di Shakespeare è in piena ascesa in un progresso che è più economico che strettamente culturale. Elisabetta I ha appena avviato una sostanziale operazione di rinnovamento interno dello stato basata sull’idea della tolleranza religiosa. Purtuttavia il prolungarsi del medioevo inglese non è meno sanguinario del contemporaneo Rinascimento italiano ed europeo. Ovunque si moltiplicano i delitti tra i vicoli, complotti, progetti di colpi di stato. Regine decapitano altre regine, gli intrighi di palazzo diventano l’ordine del giorno e convivono stranamente con un’idea di fedeltà alla corona e di onore individuale. Ad ogni azione corrispondono complessi di colpa dettati dagli imperativi morali della coscienza. Si uccide e si ha poi orrore delle proprie mani insanguinate.
La coscienza raffrena l’azione, ma non può impedirla in nessun modo. Anzi obbliga chi la compie a riguardarla da vicino. L’assassino si ferma sul luogo del delitto e non può fare a meno di chiedersi perché.
Così l’uomo shakespeariano che guarda verso il cielo e lo scopre strappato, come un fondale di teatro cucito male dal sarto di scena, è profondamente moderno. Ma lo scenario nel quale si muove, pur se più opulento di quello di qualche secolo prima, resta ancora Medioevo.
Così è anche il cinquecento giapponese : una strana identità di vedute, uno strano rispecchiarsi di destini.
Ne è ben consapevole Kurosawa nel realizzare Il trono di sangue, passato in Italia anche con il titolo Il castello della ragnatela.
Il regista giapponese tratta il genio inglese come fosse un suo conterraneo. Non si limita ad ambientare Macbeth nel proprio Giappone, ma scopre l’anima giapponese tra le parole della tragedia dell’ambizione e della degenerazione dell’animo umano.
La sua è una doppia azione di riconoscimento: da una parte rivendica un’identità tra il medioevo giapponese e quello inglese, dall’altra impone le ragioni del cinema a quelle del teatro.
La sua condotta nei confronti delle parole shakespeariane è di riduzione assoluta. Ogni parola viene trasformata in azione, viene ridotta a movimento, ogni battuta passa non per la voce, ma per la gestione attoriale del corpo e l’organizzazione perfetta delle scene.
Kurosawa scava sotto la perfezione del capolavoro di Shakespeare e riporta in immagine la carica barbarica e destabilizzante del testo.
Il trono di sangue è un’opera squisitamente sperimentale : rilegge una tragedia tutta occidentale (ma al fondo universale) con i gesti trattenuti e compressi del Teatro No.
La sua lettura è su più livelli. C’è la componente spettacolare sapientemente enfatizzata dal regista giapponese (ancora impressionante la scena in cui Mifune viene seppellito dalla pioggia di frecce), ma c’è anche la rilettura psicanalitica con il contrasto tra le ragioni dell’inconscio simboleggiate dalla parca (che sostituisce le tre streghe di Shakespeare) e quelle dell’utile (rappresentato dalla Lady).

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Titolo originale: Kumonosu-Jo
Regia: Akira Kurosawa

Anno: 1957
Nazione: Giappone
Durata: 110′
Genere: drammatico



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