Filosofia e Zen

Lo zen, con ogni probabilità, non ha gran che da dare all’Occidente – allo stesso modo, del resto, di quanto la filosofia occidentale non abbia molto da offrire all’Oriente, ben inteso. Sforzarsi di tradurre gli insegnamenti zen in un linguaggio a noi comprensibile può essere un’operazione tanto improba quanto sterile, se non altro perché dovremmo quanto meno chiarirci, in via preliminare, il nostro stesso linguaggio. Quel che mi sembra interessante, piuttosto, in un confronto tra filosofia e zen (e cultura orientale) è, in buona sostanza, ciò che di buono vi è sempre quando si confrontano diverse culture e diverse vedute sul mondo. Guardare a ciò che ci è alieno, estraneo, esotico, se si vuole, ci impone uno sguardo autentico per la straordinarietà stessa dell’alieno, e attraverso questo sguardo, forse, abbiamo una possibilità in più di guardare a noi stessi con uno sguardo più profondo e scevro di presupposti (ovvero pregiudizi) che troppo spesso minano la nostra comprensione di noi. È in questo spirito che propongo queste riflessioni. Non mi sembra interessante, del resto, la moda del cieco saccheggio di perle di una fantomatica “saggezza orientale”. Piuttosto, mi sembra assolutamente primario ascoltare la saggezza in qualsivoglia forma o linguaggio essa si manifesti. A questo scopo, propongo di partire da una lettura di una delle pagine fondamentali del pensiero occidentale del secolo scorso, l’Introduzione alla metafisica, di Martin Heidegger, in cui il filosofo tedesco si interroga sulla domanda fondamentale della metafisica, che suona come «perché vi è, in generale, l’essere, e non il nulla».
Non è infatti ancora per nulla pacifico che la logica e le sue leggi fondamentali siano in grado di offrirci, in generale, un criterio per il problema dell’essente come tale, potrebbe essere, al contrario, che tutta la logica da noi conosciuta, e considerata come piovuta dal cielo, si fondi già su una determinata e particolare risposta alla domanda sull’essente, tale che ogni pensiero che ubbidisce solamente alle regole della logica tradizionale si trovi fin da principio nell’impossibilità anche solo di comprendere, in generale, la domanda circa l’essente, e tanto più nell’impossibilità di svilupparla realmente e di pervenire a una risposta. [...] Chi vuole davvero parlare del nulla deve necessariamente rinunciare all’atteggiamento scientifico. Ma ciò costituisce una grossa disgrazia solo fintantoché sussiste l’opinione che il pensiero scientifico sia il solo vero e autentico pensiero rigoroso e che esso possa e debba venir assunto come criterio unico anche del pensiero filosofico. E’ in realtà vero il contrario. Ogni pensiero scientifico è solo una forma derivata, e con ciò stesso irrigidita, del pensiero filosofico. La filosofia non nasce dalla scienza né grazie alla scienza. La filosofia non si lascia mai coordinare con le scienze. Essa è loro piuttosto sovraordinata, e ciò non solo da un punto di vista logico o relativamente a un piano sistematico delle scienze. La filosofia si trova in tutt’altra zona e in tutt’altro grado dell’esistenza spirituale. Solo la poesia appartiene al medesimo ordine della filosofia e del suo modo di pensare. Ma il poetare e il pensare non sono a loro volta identici. Parlare del nulla, seguita a essere, comunque, per la scienza, un orrore e un’assurdità. Può farlo, al contrario, oltre che il filosofo, il poeta: e questo non per via di un minor rigore che, secondo l’opinione comune, è dato riscontrare nella poesia, ma perché nella poesia (s’intende solo nella più autentica e più grande), sussiste, nei confronti di tutto ciò che è puramente scientifico, un’essenziale superiorità dello spirito. In virtù di tale superiorità il poeta parla sempre come se per la prima volta egli esprimesse e interpellasse l’essente. Nel poetare del poeta come nel pensare del pensatore vengono ad aprirsi così grandi spazi che ogni singola cosa: un albero, una montagna, una casa, un grido d’uccello, vi perde completamente il proprio carattere insignificante e abituale.  Al di là delle possibili connessioni storico-filosofiche, ed evitando di addentrarci ulteriormente sul terreno della metafisica, mi interessa sottolineare in modo particolare la pari dignità gnoseologica che Heidegger stabilisce per la poesia e la filosofia, entrambe irriducibili ad una logica scientifica, entrambe per lo più minimizzate per questa stessa irriducibilità che è poi il loro più intimo tratto. Nella poesia questo è evidente, molto più che nella filosofia, che è sempre soggetta al fraintendimento che debba essere razionale per essere rigorosa. Vi è tuttavia un rigore, nella filosofia oltre che nella poesia, che trascende la logica, e che consiste in quel bene-dire che le contraddistingue, un dire, cioè, non retificante, che rimette la cosa alla sua verità e che in questo mostra anche il suo aspetto più demonico, di critica, d’accusa della realtà, di lotta contro le contraddizioni di questa pacificazione normalizzatrice che è la logica del potere. (Una logica che oggi certamente fiorisce nella sua forma più sottile e perfetta nella tecnologia, ma che evidentemente agisce da sempre, e contro cui sempre filosofia e poesia sono entrate in contraddizione – sotto questo aspetto esse non sono mai pacifiche). Suzuki, che ha trascorso gran parte della sua vita nello sforzo di spiegare lo zen agli occidentali, spiega e riassume brillantemente tutta la contraddizione tra la visione del mondo occidentale e quella orientale. E lo fa con un esempio quanto mai significativo. Egli cita un haiku di Basho:

Yoku mireba
Nazuna hana saku
Kakine kana

Quando io guardo attentamente
vedo il nazuna in fiore
presso alla siepe!

Spiega Suzuki che il tono della poesia è assolutamente dimesso, senza particolari slanci poetici, se si eccettua il kana finale, che in giapponese è una particella che indica un certo sentimento di ammirazione, un elogio, una passione, insomma qualcosa che noi esprimiamo di solito con un punto esclamativo. Questo punto esclamativo, ovviamente, dà il senso a tutta la poesia. Suzuki avverte che è molto difficile spiegare ad un occidentale il sentimento che sprigiona da questo haiku: Basho, egli dice, quando scoprì questa «pianticella nascosta, quasi disprezzabile, fiorente presso la vecchia siepe in rovina lungo la remota via campestre, con tanta innocenza, con tanta umiltà, senza alcun desiderio d’essere notata da nessuno», quando la vide con attenzione, fu mosso da sincera ammirazione e si rese conto di quanto fosse tenera, «quanto piena di divina gloria». «Il poeta», continua Suzuki, «può leggere in ogni petalo il mistero abissale della vita o dell’essere». Il nazuna è un fiore modesto, assolutamente inappariscente, come una margherita sul ciglio d’una strada. Pure, «quando la mente si schiuda alla poesia, al misticismo o alla religione, noi sentiamo, come già Basho, che perfino in ogni filo d’erba incolta vi è qualcosa che realmente trascende ogni abbietta, ogni venale passione umana, qualcosa che ci innalza in un regno il cui splendore è pari a quello del Paradiso Terrestre. Non è qui questione di grandezza. In questo senso il poeta giapponese ha un suo particolare talento, che svela quanto di grande vi sia nelle piccole cose, che trascende ogni misurazione quantitativa».
Fin qui l’Oriente, dice Suzuki, e passa ad un esempio di poesia occidentale. Tennyson:

Flower in the crannied wall,
I pluck you out of the crannies; -
Hold you here, root and all, in my hand,
Little flower – but if I could understand
What you are, root and all, and all in all,
I should know what God and man is
.

Fiore che spunti dal muro screpolato,
Io ti colgo dalla fessura.
Ti tengo qui, la radice e tutto, nella mia mano,
Piccolo fiore – ma se potrò capire
Ciò che sei, la radice e tutto, e tutto in tutto,
Saprò che cosa sono Dio e l’uomo.


Suzuki sottolinea le differenze tra le due poesie, di per sé alquanto evidenti. In primo luogo egli nota come Tennyson sradichi la pianticella dal suo luogo, «la radice e tutto», incurante quindi, della vita del fiore stesso: egli è mosso unicamente da un desiderio di curiosità, completamente assente in Basho, che si limita alla contemplazione, nella quale tutto il mistero del nazuna si rivela per quello che è, senza alcun bisogno di verbalizzazioni o spiegazioni. La vita si dà, così, interamente, nell’atto stesso dello stare in essa. Al contrario Tennyson, dice Suzuki, «è tutto intelletto, tipico della mentalità occidentale; è un avvocato della dottrina del Logos. Deve dire qualcosa, deve astrarre o intellettualizzare la sua concreta esperienza. Deve procedere oltre il dominio del sentimento in quello dell’intelletto e assoggettare la vita e la passione ad una serie di analisi per dar soddisfazione allo spirito indagatore dell’Occidente».
Fortunatamente, è ovvio, l’Occidente è molto più complesso e ricco di quanto non appaia agli occhi di Suzuki. Fortunatamente, né la poesia, né tanto meno la mentalità occidentale, si esauriscono in Tennyson, e certo quanto sarebbe stato diverso il paragone tra Oriente e Occidente se Suzuki avesse scelto come termini Basho (che, diciamolo, è tra i più grandi poeti del Giappone, il fiore dell’haiku, forse) da un lato, e Dante, dall’altro. Del resto, non tutti i giapponesi sono in grado di scrivere poesie come quelle di Basho, e anche tra i loro haiku, quanti raggiungono i livelli di un ungarettiano «m’illumino d’immenso»?
E tuttavia non ci farà male – a noi occidentali – se per una volta ascoltiamo i rimbrotti che ci provengono da un’altra cultura, noi che siamo sempre stati abituati a strappare, radici e tutto, intere culture, a giudicarle, vivisezionarle, imponendo la nostra giusta veduta e i nostri verissimi miti di progresso e civiltà. Qualora proseguissimo nell’ascolto di questa critica, comprenderemmo presto quali sono i termini in questione. Scrive infatti Suzuki, più oltre: L’approccio Zen consiste nel penetrare direttamente entro l’oggetto in sé e nel guardarlo, per così dire, dall’interno. Conoscere il fiore è diventare il fiore, essere il fiore, fiorire come il fiore, e godere tanto della luce del sole quanto dell’acqua piovana. Quando questo si dia, il fiore mi parla e io conosco tutti i suoi segreti, tutte le sue gioie, tutte le sue pene; che è quanto dire tutta la vita che freme nel suo intimo. Ma non basta: di pari passo con la “conoscenza” del fiore io comprendo tutti i segreti dell’universo, il quale include tutti i segreti del mio Io, che tanto a lungo per tutta la vita ha eluso il mio inseguimento, poiché io ho scisso me stesso in una dualità, l’inseguitore e l’inseguito, l’oggetto e l’ombra. Nessuna meraviglia che non sia mai riuscito ad afferrare il mio Io, e che così spossante sia stata una tal partita!
[...] Mentre il metodo scientifico uccide, assassina l’oggetto e mediante la dissezione del cadavere, e di nuovo poi la ricomposizione delle parti, si sforza di riprodurre l’originario corpo vivente, ciò che è invero assolutamente impossibile, il metodo Zen prende la vita così come è vissuta, in luogo di farla a pezzi e tentare poi di restaurarla mediante l’intellezione, o incollarne di nuovo insieme i pezzi staccati per via di astrazione.  Ecco dunque riproporsi la dicotomia tra un approccio logico-scientifico ed uno filosofico-poietico, o Zen, secondo la prospettiva di Suzuki. Ma allora qui non è più in questione una differenza tra Occidente e Oriente, semmai solo nella misura in cui l’Occidente è di fatto il teatro dove è sorto e si è imposto il primo approccio, a scapito del secondo. Lo Zen si lascia cogliere solo attraverso aneddoti ed esempi, mai per intellettualizzazione, dinanzi alla quale esso appare quanto mai refrattario (si narra che, una volta, un maestro di tiro con l’arco abbia espulso all’istante un discepolo – occidentale – che gli aveva rivolto una domanda puramente teorica). Suzuki riporta diversi di questi aneddoti. In uno, si svolge un dialogo tra un maestro e un monaco:

«Hai tu mai fatto un qualche sforzo per disciplinarti alla verità?»
«Sì»
«E come ti eserciti?»
«Quando ho fame, mangio, quando sono stanco, dormo»
«Questo è ciò che fanno tutti, ma si potrebbe dire mai che si esercitino al tuo stesso modo?»
«No»
«Perché no?»
«Perché, quando mangiano, non mangiano invero, bensì pensano a tante altre cose, con ciò lasciandosi disturbare; quando dormono, non dormono, ma sognano mille cose. Per questo non sono come me»

Fromm commenta con le seguenti parole:
L’uomo medio, preda dell’insicurezza, dell’ingordigia, del terrore, si trova costantemente irretito in un mondo di fantasie (pur senza esserne necessariamente consapevole), nelle quali riveste il mondo di qualità che egli proietta in questo, ma che in questo non sono. Tutto ciò era già vero nell’epoca in cui si svolse la conversazione succitata; ma quanto maggiormente è vero oggi, quando quasi ognuno vede, sente, prova e gusta piuttosto con atti di pensiero che con quelle facoltà interiori, che possono vedere, sentire, provare, gustare. Un altro aneddoto molto significativo si riferisce ad un maestro Zen che racconta: «Prima che io fossi illuminato, i fiumi erano fiumi e le montagne erano montagne. Quando ebbe inizio per me l’illuminazione, i fiumi non erano più fiumi e le montagne non erano più montagne. Ora, dopo l’illuminazione, i fiumi tornarono di nuovo ad esser fiumi e le montagne montagne». Sembra quasi che lo Zen non sia altro che una tecnica per ricacciare il “mondo dietro il mondo” tanto criticato da Nietzsche per vivere nel mondo così com’è. Ecco allora in quale senso esso sia refrattario all’intelletto: l’intelletto, quando voglia cogliere il reale, non fa altro che incatenare l’uomo a questa platonica caverna di ombre astratte, che rinviano solo, ma non coincidono, alla realtà delle cose.
Scrive ancora Fromm: Benessere è aver conseguito il pieno sviluppo della ragione: ragione non già nel senso di un mero giudizio intellettuale, ma in quello dell’afferrare la verità “lasciando che le cose siano” (per usare le parole di Heidegger) così come sono. Benessere è possibile soltanto a quel livello in cui si sia superato il proprio narcisismo; a quel livello in cui si sia aperti, rispondenti, sensibili, lucidi, vuoti (nel senso dello Zen). Benessere significa essere pienamente correlati all’uomo e alla natura sul piano affettivo, significa superare l’isolamento e l’alienazione, pervenire all’esperienza della comunione con tutto ciò che esiste, e tuttavia, nel contempo, sperimentare me stesso come quell’entità separata che io sono, come l’in-dividuo. Benessere significa essere pienamente nati, diventare in atto, quel che si è in potenza; significa avere completa disponibilità alla gioia e al dolore, o per dirla in modo diverso, ridestarsi dal torpore in cui vive la gran massa degli uomini ed essere completamente svegli. Ma se significa tutto ciò, significa anche essere creativi, vale a dire reagire e rispondere a me stesso e agli altri, a tutto ciò che esiste – reagire e rispondere alla realtà di ognuno e di ogni cosa, così come quello e questa sono, al modo dell’uomo reale e totale, quale io sono. Al cuore dello Zen, in fondo, non vi è che questa esigenza, espressa in altre parole e in altri tempi in Occidente, eppur presente ancora, viva, nonostante il trionfo della logica scientifica. Il satori, l’illuminazione Zen, non esprime altro che questo. «L’essere illuminato significa il “pieno ridestarsi alla realtà della persona nella sua totalità”». La filosofia occidentale, in contrasto con lo scientismo, non ha mai fatto altro che ammonire allo stesso modo.
«Qual è il primo dovere dell’uomo? La risposta è breve: essere se stesso» (Ibsen, Peer Gynt).
Mi sembra che la saggezza, qualora parli, non faccia altro che ribadire, in prima istanza, questo monito. Sempre. E sempre, forse, rimane inascoltata.

Diego Rossi



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